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Caso Shalabayeva, condannato per sequestro di persona Renato Cortese

mercoledì 14 Ottobre 2020
Renato Cortese
Renato Cortese

Il rimpatrio di Alma Shalabayeva, e della figlia Alua, sei anni, dall’Italia (vennero prelevate in una villa a Roma nella zona di Casalpalocco) in Kazakhstan alla fine del maggio del 2013 configurò un sequestro di persona. Ne è convinto il tribunale di Perugia che dopo una lunga camera di consiglio ha condannato tutti gli imputati. A cominciare dall’allora capo della squadra mobile di Roma Renato Cortese, già capo dello Sco e ora questore di Palermo, e Maurizio Improta, che guidava l’Ufficio immigrazione e adesso la polizia ferroviaria. Infliggendo loro cinque anni di reclusione e disponendo l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Due poliziotti di prima linea finiti sul banco degli imputati. Con loro Luca Armeni e Francesco Stampacchia, funzionari della squadra mobile, condannati sempre a cinque anni, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, in servizio all’Ufficio immigrazione, ai quali sono stati inflitti quattro anni e tre anni e sei mesi. Assolta invece dall’accusa di sequestro di persona il giudice di pace che si occupò del procedimento Stefania Lavore, condannata a due anni e sei mesi per falso.

Il tribunale presieduto da Giuseppe Narducci ha comunque assolto gli imputati da una decina dei capi d’accusa per falso ideologico, abuso e omissione d’atti d’ufficio. Tutti hanno assistito in aula alla lettura del dispositivo lasciando poi il tribunale senza fare commenti. Cortese, Improta e gli altri poliziotti coinvolti, così come il giudice di pace, hanno sempre rivendicato la correttezza del loro comportamento e le loro difese hanno già annunciato ricorso in appello.

Imputati ma galantuomini – ha sottolineato l’avvocato Massimo Biffa –, la punta di diamante della polizia. Bisognerebbe essere fieri di essere rappresentati da loro“.

In aula non c’era invece Alma Shalabayeva che vive a Roma con le figlie dopo essere tornata in Italia nel dicembre del 2013, mentre il marito il dissidente kazako Mukhtar Ablyazov è in Francia dove gli è stato riconosciuto l’asilo politico. Attraverso il suo legale di parte civile, l’avvocato Astolfo Di Amato, ha comunque sottolineato di essere stata “molto colpita dall’indipendenza della giustizia italiana“. “Nel mio Paese non sarebbe andata così” ha aggiunto.

L’avvocato Di Amato ha però evidenziato come a suo avviso nella vicenda ci siano ancora dei punti non chiariti. “Nessun imputato aveva un interesse personale – ha detto – e quindi hanno obbedito a degli ordini. Chi li ha dati l’ha fatta franca“. Sarà ora il tribunale a dover offrire una propria lettura di quanto successo nelle ore che portarono all’espulsione, attraverso le motivazioni della sentenza.

Una vicenda nella quale erano coinvolti inizialmente anche tre funzionari dell’ambasciata kazaka a Roma, prosciolti però dal gup che ha riconosciuto loro l’immunità diplomatica. I quali tuttavia – emerge dai capi d’imputazione – avrebbero attivato “direttamente l’Autorità di polizia italiana e ingerendosi sistematicamente nell’attività investigativa”. Che portò – sempre in base alla ricostruzione accusatoria – a portare alla privazione della libertà personale di Alma Shalabayeva e della figlia, al loro trattenimento e al rimpatrio. Nel corso della requisitoria, il pm Massimo Casucci – che aveva chiesto condanne più lievi di quelle comminate dal tribunale – aveva sostenuto che Shalabayeva e la figlia furono imbarcate su un aereo per il Kazakistan “contro la loro volontà'”.

Per il magistrato la donna “riferì più volte i rischi che avrebbe corso se fosse tornata nel suo Paese” e il pericolo di subire violazioni dei diritti umani vista la posizione del marito. Parlando anche di “corto circuito informativo” e di “esplosione mediatica e politica del caso”.

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