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Il nuovo racconto di Gioacchino Lonobile: “Mio nonno aveva i capelli rossi”

sabato 15 Luglio 2017

Il padre di mio padre era un uomo enorme e aveva i capelli rossi, nessuno in famiglia li aveva. Mio nonno ha sempre goduto di un’ottima salute, ma una volta dovette passare un poco di tempo all’ospedale Civico di Palermo. Dice che aveva l’acqua nello stomaco, che si sa quando è così sono cose brutte, che è possibile che sia cirrosi. Ma anche se alla fine quella volta non era cirrosi, dovette stare ricoverato cinquantasei giorni. In tutto quel tempo passato tra le corsie, parenti e amici non fecero mai mancare la loro vicinanza a mio nonno, che era persona stimata e ben voluta da tutti, ma nemmeno una e una volta, ci andò a fare visita lu zi’ Pippino, suo suocero. Attenzione, serve precisare che lu zi’ Pippino, non è che fosse una persona proprio simpatica, aveva un carattere un poco particolare, chiuso, non dava confidenza nemmeno ai congiunti più stretti. A essere sinceri aveva proprio un carattere di schifo.

Un poco d’affetto lo dimostrava solo per il suo cane: un canuzzo nico nico, che in un eccesso di ottimismo aveva chiamato Semuscarsi, tutto attaccato. Bisogna aggiungere inoltre che il suocero di mio nonno oltre che a mancare di sentimento per gli altri cristiani, mancava anche di una dote che da queste parti può essere abbastanza rara, mancava di voglia di travagliare. Lu zi’ Pippino era lagnusu, e meno male per lui che sua moglie era così massara che lavorava per due. Naturalmente mio nonno, tra l’altro grande travagliatore, non teneva grande simpatia per questo suo suocero, e quella mancata visita gli si piazzò sulla bocca dello stomaco, e più ci pensava e più gli allavancava male parole. Se a questo si aggiunge il fatto che, in cinquantasei giorni di degenza, uno che è abituato a stare in campagna dalle sei del mattino alle otto di sera il tempo se lo deve fare passare in qualche modo, a forza di farsi il sangue amaro a mio nonno ci venne una bella pensata. Una pensata che poteva essere racchiusa in una sola frase “non sei potuto andare a trovare una volta a pilu russu e ora vai a scoppare a minchia verde“.

Minchia verde era località lontana e sperduta, sconosciuta ai più, anzi a tutti tranne che a mio nonno. Siccome che c’era un suo compagno di stanza di Bisaquino, che sarebbe stato dimesso da lì a qualche giorno, mio nonno ci disse “Quando esce di qua me la fa una cortesia? m’imbucasse questa”. E ci consegnò una cartolina le cui prime parole erano “Caro zio”. Nella cartolina mio nonno si spacciava per un nipote dello zi’ Peppino, capitano di lungo corso che in quei giorni con la sua nave era attraccato a Palermo, ma che viveva da un collega a Bisaquino. Il capitano avrebbe avuto enorme piacere a rincontrare il lontano parente “per ricongiungermi alle mie radici” scriveva. Lo invitava ad andarlo a trovare nel paesino, perché lui, per motivi non chiari, non poteva raggiungerlo a Palermo e concludeva esortando lo zio a portare con sé una valigia abbastanza capiente da poter contenere tutti i regali che gli aveva portato. Lo zi’ Peppino non ebbe nemmeno un dubbio, il fatto che la missiva potesse essere falsa non gli sfiorò la mente.

Alcuni dicono che quella fu l’unica volta che videro sorridere l’anziano. I preparativi iniziarono nove minuti dopo l’arrivo della cartolina in casa. Lu zi’ Pippino s’accattò un bello vestito chiaro con la camicia, la giacca, la cravatta e macàri un cappello bianco, che mica con il suo nipote capitano poteva fare mala figura. Si fece prestare una valigia, che più che una valigia pareva uno di quei bauli in cui le nonne conservano i corredi di sette generazioni di future spose. Passarono meno di due giorni e lu zi’ Peppino era alla stazione centrale di Palermo, bello come il sole con l’ingombrante valigia al seguito, ad aspettare un treno per Bisaquino, fremente di ricongiungersi all’amato nipote. Con il fresco della mattinata e il desiderio della trovatura, il viaggio d’andata passò senza particolari patemi. Una volta giunto in paese, superata la chiesa Madre e la piazza principale, come era descritto nella cartolina, non fu difficile trovare via e numero civico. Gli si presentò davanti una vecchia porta in assi di legno un poco sgarrupata, ma ridipinta da poco di marrone scuro.

Si aspettava certamente di meglio, ma non si fece scoraggiare dalle apparenze. Bussò una prima volta, nessun segno di vita pareva contenere la casa, lu zi’ Peppino fermo sotto il pico del sole, giacca, cravatta e macàri cappello bianco, reggeva con una mano l’enorme valigia, mentre l’altra era sospesa a mezz’aria pronta a ripetere lo stesso gesto. Bussò una seconda volta e finalmente si sentì qualcosa, dei passi che si fermarono proprio dietro la porta, qualcuno lo stava osservando dalle fessure tra le assi. Lu zi’ Peppino fece un respiro profondo e bussò per la terza volta. Passarono due secondi, che al vecchio gli parvero una vita, poi una voce troppo profonda e antica da poter appartenere al nipote di chiunque chiese “Cù è?”. “Lo zio!” rispose con una voce che gli usciva direttamente dal cuore. “Cù?” chiese la stessa voce di prima ancora più dubbiosa. “Lo zio…” la voce del cuore aveva perso molte delle sue certezze e iniziò in maniera involontaria a pensare al viaggio di ritorno con il caldo, il treno pieno e la valigia in mezzo al corridoio, perché nello scompartimento non c’entrava. E mentre lu zi’ Peppino faceva questi malu pensieri, la porta si aprì.

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