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Il sale e la Sicilia, una storia d’amore lunga millenni. L’oro bianco dell’Isola

martedì 26 Febbraio 2019

Quando prendiamo un pizzico di sale per condire le nostre pietanze, un’attività quotidiana per tanti di noi, dietro a questo semplicissimo e diffusissimo gesto in realtà è incastonata la Storia plurimillenaria di un prodotto che non è stato e non è soltanto un condimento.

Il sale infatti, ha avuto un ruolo d’incalcolabile importanza per la sopravvivenza di molte civiltà, non a caso venne battezzato“oro bianco”, trovando applicazione non soltanto in ambito gastronomico ma in molteplici e svariati campi. Ma non solo, nel corso dei secoli gli si sono attribuiti vari significati di carattere religioso, rituale e scaramantico.

A partire dall’antichità, oltre al condimento dei cibi, questo “oro bianco” veniva usato per conservare gli alimenti, soprattutto il pesce, inoltre, come scrive Plinio il Vecchio nella “Naturalis Historia”, veniva usato per la lavorazione dell’oro e degli smalti oppure per aumentare la durata della fiamma nelle lucerne ad olio. Anche nel paganesimo, il sale era carico di significati: senza infatti, alcuni sacrifici non erano ritenuti validi. E poi in campo igienico e medico trovava numerosi usi, ad esempio per disinfettare le ferite, per evitare l’assideramento ai piedi e finanche per la pulizia dei denti.

Una terra nella quale il sale ha assunto un ruolo da protagonista è sicuramente la Sicilia. Qui, fin dal tempo dei Fenici, il sale veniva estratto in gran quantità, arricchendo le popolazioni che abitavano l’Isola. Il geografo Idrisi nel “Libro per lo svago” del 1154, ci fornisce un’accurata descrizione di una grande salina, già all’epoca attiva, nei pressi di Trapani che riforniva le tonnare del territorio. In quest’epoca erano funzionanti alcune saline nello stagnone di Marsala e lungo le coste siracusane e messinesi.

Durante il regno di Federico II, gli impianti vennero acquisiti dal demanio regio ma dopo la lunga guerra del Vespro, i nuovi dominatori, gli Aragonesi, diedero vita ad un’ampia politica di concessioni feudali. Nel XV secolo, oltre ad accrescersi l’importanza dell’estrazione salina dalle grotte di salgemma (ricordiamo le miniere nella Valle dei Platani), aumentò l’esportazione verso le coste francesi e i porti di Napoli e Genova, determinando la fortuna di parecchi mercanti pisani, i principali intermediari di questo commercio. Ma è nella seconda metà del XVI secolo che la Sicilia acquisì straordinaria importanza nell’estrazione e nell’esportazione del sale nel commercio internazionale. Tale crescita era in parte dovuta all’espansione turca nel Mediterraneo Orientale, soprattutto dopo il 1572, anno della conquista turca di Cipro, a causa della quale i veneziani, che si rifornivano di sale soprattutto in quell’isola, furono indotti ad importare sempre più copiosamente sale dalla Sicilia.

In questo periodo, nel panorama siciliano, fu soprattutto il porto di Trapani a diventare uno snodo fondamentale per l’esportazione del sale: il grande storico francese Fernand Braudel nella sua opera “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” mise in luce proprio il peso di Trapani nel commercio internazionale del sale:nel 1574 il porto trapanese arrivò ad esportare 7.000 tonnellate di “oro bianco” che divennero 12 mila nel 1584. Nel Seicento le cose sembrerebbero peggiorare a causa di guerre ed epidemie che provocarono impennate improvvise e vorticose dei prezzi ma nel XVIII secolo la congiuntura favorevole dei commerci fu fonte di arricchimento per quelle aree isolane dove la produzione salifera era importante e a Trapani, città di assoluta centralità in questo commercio, si affermò un ceto mercantile dinamico, ricco e potente, che s’adoperò in un’espansione urbana rilevante: nel 1735 dal porto di Trapani furono spediti 45.000 tonnellate di sale per arrivare nel 1774 a quota 70.000.

La domanda era quindi enorme e il sale siciliano seguiva vari flussi commerciali, essendo venduto in tutta l’area mediterranea; oltretutto è proprio nel Settecento che crebbero a dismisura le esportazioni verso l’Olanda, la Svezia e la Norvegia, grandi consumatrici di sale poiché proprio in quest’epoca si affermò l’industria della conservazione del merluzzo.

Naturalmente, l’apertura del mercato americano, intorno alla metà dell’Ottocento, diede enormi possibilità di guadagni e d’investimenti anche nei settori collegati indirettamente all’industria salifera (pensiamo alle attività di credito e ai servizi assicurativi). Negli anni ‘80 del XIX secolo, soltanto nel territorio trapanese, erano in piena attività una quarantina di saline che producevano mediamente 160.000 tonnellate di minerale di cui il 90% era destinato all’esportazione estera. Nel primo Novecento il flusso commerciale del sale siciliano toccò l’apice, numerosi furono gli investimenti, specialmente nel territorio marsalese, con una produzione di ben 230.000 tonnellate nel 1925.

Ma a partire dagli ’50 iniziò il declino: i processi di globalizzazione e delocalizzazione, nuove tecniche di conservazione dei cibi e l’affermarsi di nuovi flussi commerciali determinarono la crisi irreversibile di quello che era stato per millenni un settore trainante dell’economia siciliana.  Quindi, il sale e la Sicilia hanno avuto, sin dall’antichità, un rapporto indissolubile, un prodotto la cui domanda nei circuiti commerciali fu spesso alta, naturalmente con oscillazioni a seconda delle epoche, poiché si trattava di un bene di prima necessità e che pertanto assicurava guadagni, più o meno, sicuri diventando in alcuni casi un vero e proprio asse portante dell’economia siciliana.

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