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La Lingua siciliana, madre di quella italiana: spunti per un dibattito

mercoledì 18 Settembre 2019
Scuola Siciliana

Che il siciliano non fosse un semplice dialetto, ma una vera e propria “Lingua” ne eravamo già convinti, ma se a scriverlo è Dante, nel De vulgari eloquentia, anche i più scettici dovranno farsene una ragione. Ascoltiamo quanto afferma l’Alighieri: «Indagheremo per primo la natura del siciliano, poiché vediamo che il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri: che tutto quanto gli Italici producono in fatto di poesia si chiama siciliano […]»

Siccome non vogliamo lasciare nulla al caso, partendo da questo riconoscimento importante e velatamente stizzoso, comprenderete in seguito il perché di questo aggettivo, vogliamo ricostruire il puzzle attraverso i vari tasselli che, rappresentati da articoli precedenti, sembrerebbero portare alla conclusione che “Sicilia vincit omnia“. Chi di voi ha visto il “Grosso Grasso matrimonio greco” in cui la protagonista ha un padre di origini elleniche che, trasferitosi in America e come il più grande degli etimologi, rimanda alle sue amate origini linguistiche qualsiasi cosa mangi, veda o senta?

Federico II in una miniaturaCosì, nel nostro caso, si potrebbe parlare di “Grosso Grasso patrimonio siculo” in quanto, partendo da Shakespeare e le sue probabili origini messinesi, continuando con Nina Siciliana, di cui accenneremo in seguito, abbiamo seguito delle tracce che ci hanno indicato un’unica direzione che ha come punto d’arrivo la nostra amata isola. Il nostro racconto, una sorta di giallo letterario, parte con il ritrovamento, in una biblioteca lombarda, di alcune poesie della scuola siciliana da parte del ricercatore Giuseppe Mascherpa. Si tratta di frammenti di autori come Jacopo da Lentini, “il Notaro”, fondatore della Scuola Siciliana, e Federico II, l’imperatore-poeta, che ne fu il geniale ideatore.

La trascrizione, avvenuta tra il 1270 e il 1290, porterebbe a ipotizzare l’esistenza di un piccolo canzoniere di liriche, made in Trinacria, che circolava in quegli anni nelle varie corti della penisola e, tenetevi forte, il famoso «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse» avrebbe un significato “altro” da quello più noto, suonando come una convalida dell’idea, per molti studiosi priva di fondamento, che la nostra lingua nasca, agli inizi del Duecento, dalla rivolta dei poeti siciliani contro il latino ecclesiastico. I frammenti, infatti, mostrerebbero l’originale veste delle liriche, antecedenti alla versione toscanizzata, da cui emerge un panorama letterario laico; ma, se il ritrovamento è avvenuto in luoghi così lontani da quello di origine, diventa ovvio attribuirgli una diffusione vasta e, inoltre, la condanna, in esse contenuta, di grandi famiglie guelfe farebbe comprendere il perché Dante temesse questi poeti, considerati da lui sovversivi e lontani dal continente.

Dante

La reazione della Chiesa contro questo laicismo imperante fu durissima e appare sempre più chiara, alla luce dei fatti, come molti studiosi hanno fatto notare, la metamorfosi di Dante da “cantore” dell’amore per la donna a quello per Dio che procede, per tappe successive, dalla Vita Nova attraverso il Convivio per arrivare alla Divina Commedia. Il sommo poeta, insomma, cerca di riprendersi il ruolo di primo piano perché questi rimatori stavano per relegarlo da fondatore a semplice voce, anche se importante, di una lingua che era, in realtà, già in itinere. Dal disconoscimento al riconoscimento di una nuova paternità, che avrebbe avuto come centro la Sicilia e non più la Toscana, il passo era breve e, addirittura, nullo se si pensa che la corte di Federico di Svevia era fucina di grandi poeti come Jacopo da Lentini, Rinaldo d’Aquino, Pier della Vigna, Filippo da Messina.

Ed ecco che l’Alighieri, nel 1300, anno in cui si colloca il suo viaggio ultraterreno, condanna all’Inferno, nel girone degli eretici, Federico II, «che l’anima col corpo morta fanno», dotato sì di «altezza d’ingegno», ma che «ebbe a disdegno» e in quello dei suicidi, Pier delle Vigne, il poeta siciliano che era uno dei collaboratori più stretti dello Stupor mundi. Ma perché questo astio dell’illustre fiorentino? La spiegazione ufficiale è legata alla colpa imperdonabile dei Siciliani di aver tentato una ricerca sull’amore carnale, al di fuori della religione, ma in realtà, noi ipotizziamo, il timore più personalistico di essere spodestato.

Nina Siciliana

Ancora nell’Ottocento, un critico sensibile come Francesco de Sanctis, dimostrava una certa sordità nei confronti dei poeti della Scuola siciliana e bisogna aspettare il 2008 per avere la prima edizione critica completa e commentata in tre volumi dei Meridiani, che rappresenta una pietra miliare degli studi sui poeti siciliani e siculo-toscani, che dei Siciliani sono considerati gli immediati continuatori. A rafforzare il nostro impianto narrativo entra, inoltre, prepotentemente in scena una figura di donna straordinaria, di cui abbiamo già parlato in un altro articolo, Nina Siciliana che, vissuta nel XIII sec., contende alla fiorentina, conosciuta con lo pseudonimo Compiuta Donzella, il riconoscimento di prima poetessa in lingua volgare.

Accenniamo a questa rimatrice perché, alcuni decenni prima, nel sud della Francia erano nate le cosiddette trobairitz, che avevano cantato con successo la “fin’amor” al femminile. L’affinità tra l’unico componimento di una di loro, Alamanda de Castelnau, e la produzione della nostra Nina, secondo alcuni di origine palermitana e secondo altri messinese, svelerebbe, (l’ipotetico nelle indagini è necessario), che il canale attraverso cui era venuta a conoscenza di questa parallela realtà poetica, come accadeva d’altronde per i trovatori, fossero le corti che lei, quasi sicuramente, frequentava.

Detto ciò, noi siciliani, nonostante l’acredine di Dante nei confronti dei nostri rimatori, troviamo inconcepibile che, nel 2012, “Gherush92“, un’organizzazione di ricercatori e professionisti, che gode dello status di consulente speciale con il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e che svolge progetti di educazione allo sviluppo, abbia affermato che la Divina Commedia, da tutti riconosciuta come grande opera d’ingegno, andrebbe eliminata dai programmi scolastici in quanto, letta con attenzione, sarebbe un insieme di stereotipi, luoghi comuni, contenuti e frasi offensive, razziste, islamofobiche e antisemite che, difficilmente, sono comprese, evidenziate e spiegate nel modo corretto.

La Divina Commedia – spiega Valentina Sereni, presidente di Gherush92 – pilastro della letteratura italiana e pietra miliare della formazione degli studenti italiani presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposta senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo”. Probabilmente i professori, volando più alto, la contestualizzano, trasmettendola agli studenti come un viaggio dal significato allegorico e didascalico, senza stigmatizzarla e censurarla in base ai tristi esempi del nostro oggi.

Concludiamo, quindi, con la difesa di Dante Alighieri, ma ripetendo orgogliosamente: “Sicilia vincit omnia“.

 

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