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Portella delle Ginestre 70 anni dopo: il perché di una strage

lunedì 1 Maggio 2017
Elio Sanfilippo
Elio Sanfilippo

Sulla strage di Portella delle Ginestre sono stati versati fiumi d’inchiostro, rapporti di polizia, sentenze di tribunali, relazioni di commissioni d’inchiesta, reportage giornalistici e film- inchiesta, come il bellissimo “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi del 1962.

E ancora oggi si continua a scrivere su quel drammatico avvenimento, anche perché non è stata ancora acquisita una verità completa.

Come in tutti i delitti e le stragi compiute dalla mafia, o in cui c’entra la mafia, non mancarono allora e nel corso degli anni, depistaggi, e singolari teorie.

La più grottesca fu quella che Il leader comunista Girolamo Li Causi, dopo avere stipulato un accordo con Giuliano per eleggere il dirigente separatista, l’avvocato Nino Varvaro, non avesse mantenuto l’impegno e il bandito per punirlo dell’affronto subito si fosse recato a Portella per rapirlo in modo plateale davanti ai suoi contadini.  Non vedendolo arrivare, per la rabbia, Giuliano si vendicò sulla folla accorsa al comizio.

Secondo questa tesi, infatti, appariva strana, l’assenza di Li Causi a quell’importante manifestazione anche perché si svolgeva non solo per festeggiare il Primo Maggio ma anche la vittoria elettorale del Bocco del Popolo, la lista composta da comunisti e socialisti, insinuando che fosse stato informato preventivamente delle intenzioni criminali del bandito.

Una diceria che fu smentita immediatamente e decisamente dal dirigente comunista Franco Grasso, tra i primi a recarsi sul luogo della strage, dimostrando come quel giorno Li Causi doveva parlare a Termini Imerese, sua citta natale, come provavano i manifesti affissi in quella cittadina.

L’oratore designato per la manifestazione di Portella era, invece il segretario della Federterra, Francesco Renda, in seguito insigne studioso della storia siciliana, il quale però non giunse in tempo perché bloccato lungo la strada da un guasto alla motocicletta.

Il Comizio fu così aperto dal segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato, Giuseppe Schirò, ma ebbe solo il tempo di dire “compagni, lavoratori, siamo qui venuti per festeggiare il Primo Maggio all’indomani…” che fu subito sommerso dagli spari.

La strage fu subito attribuita al disperato tentativo degli agrari di bloccare la riforma agraria, spalleggiati dalle forze conservatrici e reazionarie, preoccupati dall’ascesa del movimento contadino che aveva contributo al successo elettorale delle Sinistre nelle elezioni regionali di quell’anno. Una tesi che, tuttavia, appare riduttiva, anche perché la sconfitta del blocco agrario si era già consumata, i danni subiti venivano ripagati congruamente e la maggioranza degli agrari aveva perfino intravisto la possibilità di trarre benefici dalla sua applicazione.

La Democrazia Cristiana e il governo, per bocca del ministro degli interni, Mario Scelba, esclusero subito qualsiasi movente politico alla strage, sostenendo che le cause erano da ricercare “ nella mentalità feudale che ancora esisteva nell’isola”.

Il movente politico, invece fu subito evidente! Gli interessi della parte più retriva del mondo agrario s’intrecciavano con i propositi eversivi di alcuni soggetti nazionali e internazionale, interessati a favorire lo scoppio di una guerra civile di cui la Sicilia doveva rappresentare il detonatore.

Con l’esercito partigiano al Nord, non ancora smobilitato, l’esplosione al Sud di violenze e atti terroristici, e su questo in Sicilia si poteva contare con la banda armata di Giuliano, era possibile creare una situazione tale da giustificare la rottura del fronte antifascista, la messa fuorilegge del partito comunista e una svolta reazionaria gradita a determinate potenze straniere sull’esempio di quello che era avvenuto nella vicina Grecia.

Le componenti più accorte della Democrazia Cristiana, anche quelle più moderate ma di cultura democratica, avvertirono questo pericolo e si adoperarono per impedirlo. Questo spiega perché, in modo deciso, negarono qualsiasi valenza politica alla strage e alla responsabilità di Giuliano fino alla grottesca messa in scena della morte del bandito in un inventato conflitto a fuoco con i carabinieri.

La DC esaudì le richiese degli americani, definite nel famoso viaggio di De Gasperi in America, e infatti dieci giorni dopo la strage di Portella aprì la crisi di governo, sbarcando comunisti e socialisti dall’esecutivo e alla Regione siciliana, nonostante le sinistre avessero la maggioranza relativa, furono relegate all’opposizione e si formò un governo DC appoggiato dalle destre.

Le elezioni del 18 aprile del 1948 daranno il suggello democratico a un’operazione di stabilizzazione moderata senza spargimenti di sangue e rotture costituzionali, ma rispettando le regole e senza compromettere la fragile democrazia che faticosamente si stava costruendo.

Di fronte a questo risultato Giuliano non serve più, anzi per coloro che lo avevano protetto e manovrato per fini eversivi rappresenta un pericolo per le ripercussioni delle verità che il bandito può rivelare a cominciare dalla strage.

“Denuncia – gli dirà Li Causi in un accorato appello – chi ha armato la tua mano….inchioda alle loro responsabilità tutti coloro che ti hanno indotto al delitto e che ora ti abbandonano e ti tradiscono”.

Anche il governo ha interesse a chiudere la vicenda Giuliano per porre fine definitivamente alla drammatica vicenda siciliana e affermare concretamente l’autorità e il prestigio del nuovo Stato italiano.

Il bandito, però, è imprendibile, Solo la Mafia può rendere questo servizio.  E il prezzo, il pactum sceleris, si rivelerà altissimo per il futuro della Sicilia e del Paese.

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