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Racconti brevi da leggere online: “Corsie bianche”

sabato 23 Febbraio 2019
Vittorio Corona (1901-1966), "Tedoforo" (1921), 160x80cm., olio su tela.
Vittorio Corona (1901-1966), "Tedoforo" (1921), 160x80cm., olio su tela.

Siamo all’ottava parte del 1° capitolo de “La vita appesa ai muri” di Caterina Guttadauro La Brasca, un nuovo appuntamento di Romanzi da leggere online a puntate.

In questa puntata la reporter di guerra Giada ascolta la testimonianza di Azzurra distesa in un lettino di fortuna dove alcuni paramedici collegavano il suo corpo a strumenti che consentivano un aiuto immediato, in attesa poi di quello specifico…


8^ puntata, Corsie bianche,

Tratto da Caterina Guttadauro La Brasca, “La vita appesa ai muri”,

Editoriale Programma Ed., Treviso, 2013.

Giada e Matteo camminavano lungo la strada che era percorsa da chi scappava, da chi voleva rimanere inchiodato al suo passato e da chi aiutava a recuperare i corpi sepolti, molti, troppi, senza più vita e altri che erano stati protetti da mobili o muri portanti.

Accanto a una donna c’erano i paramedici che collegavano il suo corpo a strumenti che consentivano un aiuto immediato, in attesa poi di quello specifico.

Giada si avvicinò e, senza intralciare il lavoro degli altri, provò a fare qualche domanda. La donna, tutto considerato, era in buone condizioni e aveva voglia di comunicare come di riprendere consapevolezza del suo esistere. Disse che in passato ne aveva viste di peggio e ora non aveva più paura di quell’ombra lunga che quando meno te l’aspetti cerca di portarti via.

Giada attivò il suo registratore perché non voleva intervenire e farla stancare. Chiese il suo nome, si chiamava Azzurra. Mentre Azzurra parlava, gli occhi di Giada, s’impattarono sul bianco dei camici indossati dai medici e questo bastò per riportarla in un mondo ovattato e dolente: ci sono giorni che vorresti non finissero mai per la paura di perdere tutto ciò che di bello ti hanno regalato e poi ci sono giorni che iniziano nell’esatto momento in cui vorresti che finissero.

Intanto Azzurra aveva iniziato a raccontare la sua storia: «Era un giovedì di ottobre e mentre con la macchina andavamo in ospedale, un’alba magnifica salutava un giorno diverso perché più difficile da vivere. Era strano quello che provavo: mi allontanavo dal mio presente, da ciò che amavo, la mia città ancora semiaddormentata, la mia casa che amavo in ogni angolo e per ogni ninnolo che conteneva. La stranezza era che non provavo dolore ma avevo un giusto distacco che mi consentiva di riconoscere la loro importanza senza esserne schiava. Tutti i paesini che incontravamo lungo la strada erano catturati dai miei occhi che ne ammiravano il risveglio e, il mio cuore, in quel breve e fuggitivo attimo, deponeva la paura per ripartire con meno disincanto. Insomma da due anni pensavo che accadesse il miracolo, sentirmi dire che il problema non c’era più. Non mi rendevo conto o meglio non mi volevo accorgere che credere in questa possibilità era come ritornare bambini, quando le mamme ci dicevano: “Basta pensare che tu non senti male e il male sparisce”. Non ci credevo neanche allora ma mi accorgevo che il male diminuiva perché si alzava la soglia della mia tolleranza, grazie al calore di un abbraccio, alla sorpresa di un regalo, al tocco di una carezza. Che miracoli fa il cuore! Poi si diventa adulti e si entra nell’età del disincanto, si assiste al crollo di grandi certezze, si vive il dolore degli abbandoni e ti ritrovi a percorrere la vita con lo stesso distacco di quando, bambino, tenevi incollato il naso al vetro della finestra e guardavi scendere i rivoli d’acqua con una monotonia inesorabile. La soluzione possibile per eliminare il mio problema era l’intervento chirurgico. La mia città vanta una chirurgia apprezzata ma io cercavo un chirurgo che mentre eliminava il male mi coccolasse il cuore. Lo trovai in un paese a dimensione d’uomo. Perché lì? Me lo sono chiesto ma la domanda era una di quelle cui puoi rispondere solo parzialmente. È strano riconoscere quante volte prendiamo in giro noi stessi! La prima visita, un misto di curiosità, di speranza e di vergogna (a quelle visite non mi sarei mai abituata, nemmeno vivendo più vite). Poi scatta un sorriso rassicurante, la maniera garbata di visitarti, di dirti anche cose che non avresti mai voluto sentire. Tutto fece gioco: il sorriso appena accennato del mio chirurgo, quel guardare senza soffermarsi su di te, la stanchezza che certe volte me lo faceva sentire quasi estraneo al mio problema. Tutto questo repertorio di umanità me lo rendeva amico e questa volta, senza impazienza, mi misi in coda. Due anni di attesa, con tanti imprevisti e un’unica certezza: la sala operatoria. Ogni lavoro in questo mondo ha un suo valore ed è vitale per chi lo fa, ma essere chirurgo è farsi carico, prendere in affido, un corpo da guarire e un cuore da consolare. In parole povere bisogna un po’ innamorarsi del proprio chirurgo. Quella mattina arrivò e, stranamente, mi sembrò presto. Il tempo degli esseri umani è in continuo e inesorabile divenire, i giorni, come in un rosario, si sgranano diventando mesi e anni dietro le nostre spalle. Accanto e attorno a me avevo la mia valigia e i miei affetti più cari. Dopo circa un’ora ecco l’ospedale e mentre entriamo si capisce improvvisamente perché lì, a Montecchio dell’Emilia, perché quella costruzione non aveva la vastità di un ospedale di città, ma la raccolta accoglienza di una casa e questo mi faceva sperare in un’attenzione maggiore, in un dolore più sopportabile. In quella grande casa le luci sono sempre accese come la speranza e il silenzio raccoglie lo sforzo di chi riesce a farcela e, fortunatamente, in rari casi la resa di chi, dopo tanti fallimenti, cerca la pace. Incontri l’umanità di chi lavora di notte, chi veglia per proteggere e curare. So che sarà con me che quella mattina s’inizierà la serie degli interventi e, mentre andiamo all’accettazione, cerco gli occhi di chi come me attende il cartellino d’identificazione del Reparto chirurgico che ci prenderà in carico. C’è con me mio marito, mio fratello e la mia amica di sempre Ester (casualità: anche la caposala si chiama Ester). Sapevo che i loro sorrisi e le loro premure erano un modo per esorcizzare la paura di tutti e di infondermi coraggio. Sono queste le occasioni in cui comprendi che un sorriso, da quello più scontato a quello inatteso, può contenere la soglia della paura e questo non per fornire prova di coraggio, perché la grandezza dell’uomo non si misura solo dal suo coraggio. Ci sediamo e mentre attendiamo che arrivi il personale mi guardo attorno. Osservo i toni caldi dei colori dei muri, la pulizia degli ambienti e mentalmente ringrazio il Signore anche per questi particolari che danno un colore al grigio della sofferenza e ne ridimensionano l’umanità. Eravamo da soli ma dentro di me non sentivo la solitudine perché, se vincevo quella prova, sarei ritornata da chi amavo, se la perdevo, avrei raggiunto chi avevo tanto amato. Passi felpati e due giovani ragazzi fanno il loro ingresso: lei minuta, carnagione olivastra, giubbotto e jeans, scarpe da tennis, capelli rossicci, lateralmente rasati. Il suo compagno andò alla guardiola e lei si sedette accanto a me. Mi accorsi subito del suo nervosismo e del suo disagio. I suoi occhi erano bagnati e la sua mano, come un tergicristallo, impediva a quelle gocce trattenute di diventare pianto. Poteva essere mia figlia, avvertivo il senso di solitudine che provava, perché era uguale al mio, ma non ne sapevo la ragione. Come talvolta mi accade, prima di pensare agii, le sfiorai una mano e guardandola dritto negli occhi le chiesi: “Ti operi anche tu? Oggi?”. Lei mi rispose con un monosillabo controllato: “Sì”. Il mio senso materno mi fece sostituire a una presenza che non c’era e con la convinzione più grande e visibile di cui ero capace, le dissi: “Anch’io sono qui per questo, non avere paura andrà tutto bene”. Mi ringraziò con uno stentato sorriso. Quella giornata non ci saremmo più incontrate perché saremmo state occupate a vedere un film in tre tempi: l’attesa, l’intervento e il post operatorio. Mi assegnarono la camera: erano tutte a due letti, con un armadietto e il bagno in camera. Piccoli particolari che aiutano. Ringraziai ancora il mio chirurgo per avere messo per primo in scaletta il mio intervento. Sapeva che avevo avuto tanti anni fa una lunga frequentazione con l’ansia e voleva risparmiarmi quella dell’attesa che avrebbe fatto prevalere i cattivi pensieri sul coraggio. Faccio in tempo a indossare il pigiama che entra una giovane donna, illuminata da un sorriso, casacca e pantaloni verdi che sono la divisa della sala operatoria. Mio marito e mio fratello, convinti che non sarebbero venuti a prendermi immediatamente, erano scesi a fare colazione. Invece, era già il momento dei saluti. Scendo assieme a Rosy, l’infermiera, e la mia amica Ester, con la quale avevo vissuto un passato fatto di tante esperienze belle e brutte. La sua mano che stringeva la mia era la confessione silenziosa di una grande amicizia, della forza che ci aveva legato nell’arco della vita ma che ci abbandonò nel momento del saluto, quando lasciandola dietro quella porta, diedi voce alle mille sensazioni che mi affollavano il cuore con un semplice: “Grazie”. Mi si chiuse alle spalle un mondo quando Rosy, con garbo, mi guidò nella grande stanza pre-operatoria. Mi aiutò a spogliarmi facendomi indossare una camicia bianca e mi promise che sarebbe stata lei a riportarmi in camera a intervento finito. Proprio come i vestiti, si depone tutto in quei momenti: le ambizioni, i successi, le sconfitte, anche i legami, quelli che hanno scelto e quelli che ti sono rimasti impigliati nell’anima. È un esercizio che bisognerebbe fare ogni tanto, per conoscersi e ricostruire. È necessario imparare a fare a meno di tanta realtà cui ci legano i sentimenti perché, se ti allontani un po’ e la guardi a distanza, ti stupisci di poterne fare a meno. L’altruismo è certamente un sentimento encomiabile quando, però, non ci deruba dell’amore per noi stessi. Amor proprio, cos’è? Ciascuno di noi tenta di dare una definizione di questo sentimento. Non ce n’è una che sia più veritiera delle altre, né meno bella. Può essere giovane, travolgente, sincero, stanco, deluso e inconcludente ma è quello che ci insegna la vita, le dà un senso per viverla o odiarla, ci rende prigionieri o ci libera. È un amore che ci può accompagnare per un giorno o per tutta l’esistenza e che, attraversandola, ci lascia ricordi come un fiore che nasce, vive e muore ma ci rimane il dono del suo profumo. È una grande risorsa dove attingere quando l’inutilità degli altri ci lacera, quando superiamo ogni sopportazione e il domani appare irraggiungibile. È una promessa di eternità che se viene meno ci rapisce alla vita, negandola, offendendola, lasciando per strada i sorrisi, gli incontri, i momenti condivisi, la passione totalizzante che le aveva dato un senso. Questo accade perché l’Amore non si può identificare con un abbandono, una bugia, l’incoerenza e l’infedeltà, nonostante sia anche questo. C’è anche una diversità in questo sentimento che è correlato ad affetti diversi, alcuni di tutti, altri per propria scelta. È un amore che racchiude tanti sentimenti, la stima di ciò che si è, la forza di accettare anche ciò che non ci piace, il coraggio per affrontare il dolore, la convinzione che, sempre e comunque, ciascuno di noi è unico e questa consapevolezza è quella che ci aiuta a inseguire i nostri sogni e a cercare di viverli. Perché l’Amore si dà e si riceve gratuitamente, investendo soltanto ciò che siamo, credo che anche chi sia convinto di non averlo mai incontrato lo abbia conosciuto anche solo un attimo, forse senza averlo riconosciuto. Rosy mi consegnò a una sua collega che mi praticò una sedazione con una puntura. In attesa che il farmaco agisca, tu pensi. Mi sono chiesta cosa si pensa in una situazione del genere, dinanzi a una prova che comporta dei rischi. Si pensa al passato, alle cose che ti sono sfuggite, a quelle che sei riuscito a conquistare, oppure pensi alla possibilità di un futuro? Una cosa è certa: in quei momenti la valutazione che dai a ciò che hai e a ciò che potresti avere è sicuramente diversa da quella che daresti in momenti normali della tua vita. C’è l’incertezza che non puoi gestire e questo ti fa rimpiangere i momenti del tuo passato in cui il tuo pensiero, la tua forza, il tuo valore avrebbe potuto cambiarti la vita e non l’hai fatto. Entro in sala operatoria perfettamente cosciente e trovo una piacevole sorpresa.

L’anestesista che si apprestava a fare l’epidurale era la dottoressa con la quale avevo fatto l’incontro preparatorio all’intervento. Ricordo esattamente le sue domande e le mie risposte. Ovviamente domande previste, consenso informato e alla fine la mia domanda: “Ci sarà lei, quel giorno, dottoressa?”. La sua risposta: “Tutti gli anestesisti qui sono ventuno, quindi sarà difficile che ci sia io ma lei chieda, mi faccia cercare e, se ci sarò, la verrò a salutare”. La salutai con la speranza di rivederla e la sua immagine molto curata, il suo sorriso non di maniera ma spontaneo catturarono la mia fiducia. Ora, a dimostrazione che tutto può succedere, era lì e questo mi diede forza e mi rese collaborativa. La persona che cercavano i miei occhi era un’altra, una figura alta, due occhi sornioni ma decisi e appena lo vidi mi rincuorai. Ho avuto la consapevolezza della sua presenza ma mi sono persa, nel sopore, le sue parole. Intanto le mie gambe si appesantivano al punto che solo guardandole, avevo la certezza di averle. Pensai a Dio e non lo feci per esclusione ma perché ne avevo vigliaccamente bisogno. Perché vigliaccamente? Perché è il dolore, la fragilità, l’umana imperfezione che ti fa cercare Dio che, invece, è sempre presente nella nostra vita. Chi sceglie di fare il medico non può non avere una grande considerazione della vita e, di conseguenza, la forza di difenderla sempre. Un chirurgo deve anche saper sopportare i suoi fallimenti, ripartire anche dopo che il Male gli dimostra di essere più forte di lui. Bisogna insomma avere un grande carattere. E io ho sempre pensato che bisogna avere un carattere per raccogliere un destino! Fu Rosy, come promesso, a riportarmi in camera e, uscita da quella porta dove per due ore avevo vissuto e, sperato di risolvere un problema, ritrovai gli occhi pieni di sollievo dei miei cari, logorati dall’attesa. Un’altra persona scendeva mentre io salivo, seppi dopo che era la ragazza che avevo incontrato quella mattina e che il suo nome era Valentina. Quel giorno, fino a notte, m’infastidirono sensi di nausea e uno stordimento che, seppi dopo, erano l’effetto della morfina che in quel primo giorno è somministrata per contenere il dolore. Dalla stanza entrava e usciva l’infermiera di turno per controllare i parametri, le funzioni organiche, tutto con molta cura e sempre accompagnato da un sorriso di disponibilità ed efficienza. Le infermiere si succedevano nei vari turni con una continuità di comportamento che ti sembrava sempre la stessa persona ad assisterti. Erano donne che, sicuramente, oltre a essere mogli e madri, svolgevano un lavoro che le arricchiva quando erano rassicuranti, anche solo con un sorriso, una stretta di mano. Gli ammalati non sono tutti uguali, quindi occorre anche una dose d’intuito professionale e umano attraverso cui capire la modalità di comunicare. I loro nomi li imparai dopo, quando il dolore diminuì e riemerse la voglia di espormi con il mondo che mi circondava. Gina, Antonella, Monia, Nella, Arianna, Carmen le ringrazio tutte per non avermi fatto rimpiangere il calore di casa. Alla signora Ester. che ha il non facile compito di gestire organizzativamente la struttura, i turni e i rapporti con tutti i paramedici, un elogio per l’imprinting che ha dato alla sua equipe. Pensandoci, credo che non possa essere diversamente quando il Primario è una persona che vale come professionista e ancor più come uomo. La sua giornata la trascorre fino a tardi in ospedale e mi diceva di dispiacersi di non riuscire a leggere nulla, perché alla fine di una giornata di lavoro, dopo aver mangiato con la famiglia, crolla nel sonno. Si dice che dietro a un grande uomo c’è una grande donna e penso che anche in questo caso la regola sia stata rispettata. Un chirurgo deve avere accanto una donna intelligente e comprensiva per giustificare con se stessa e con i figli il poco tempo che il padre può dare a loro e a se stesso».

Si dice spesso che il mondo è piccolo… Mentre Azzurra terminava il suo racconto, Giada le chiese il nome del chirurgo e, quando lo sentì, le venne in mente che qualche tempo prima lo aveva intervistato nel corso di una sua inchiesta.

Quella sera ritrovò l’intervista e la rilesse con piacere.

Gli aveva chiesto da cosa era nata la sua decisione di fare il chirurgo. E così aveva ascoltato una storia vera che, come raramente accade, aveva quasi il sapore di una favola.

Un lungo fiume di parole che, così, aveva cominciato a fluire: «Mi stava stretto quel paesello, con le case di pietra, ogni tanto se ne staccava qualcuna e dava asilo a piccoli nidi attorno ai quali garrivano tutti i giorni le madri che lo costruivano e i piccoli che alzavano appena le ali, nel tentativo di imitarle. I comignoli respiravano fumo componendo nuvolette più o meno chiare che rendevano quel cielo tanto simile a quello di Rio Bo. Le stelle, la sera, erano così luminose che i lampioni delle strade si spegnevano, e si beveva l’acqua di quel ruscello che schizzava sui ciottoli, resi trasparenti dalla carezza continua dell’acqua fredda e colorata di trasparenze create dall’erba che cresceva a ciuffi, rigogliosa e spontanea. Ogni giorno uguale all’altro, nessuno sforzo, nessuna conquista, mai un rischio da correre per un grande traguardo, come mettere alla prova il mio coraggio, dare spazio alle mie idee, scegliere anche un errore ma accorgermene da solo, per dimostrare a me stesso che era giusto provare. Così partii, prima con la fantasia, poi con il cuore e infine con tutto me stesso. Certo, provai l’incertezza, il disagio di guardarmi attorno e di non riconoscermi in niente di ciò che vedevo, la paura di trovare il nulla dove pensavo ci fosse altro, ma mai venne meno la voglia di andare oltre la quotidiana banalità vissuta prima. Andai col vento, con la pioggia, sovrastata dal cielo scuro, camminando tra arbusti aggrovigliati da radici antiche, arrivai in fondo a sentieri senza sbocco fino a fermarmi, ma mai tornai indietro. La voglia di vivere aveva soppiantato quella di sopravvivere. Capii che ogni cosa era un mezzo per raggiungerne un’altra. Vidi stelle più luminose, palazzi senza comignoli, fiumi in piena che s’ingigantivano proprio come lo sforzo che mi aveva allontanato da un mondo piccolo, dove i giorni erano esattamente uguali, dove nulla ti salvava fino al giorno che ti accorgevi di essere diventato vecchio avendo vissuto sempre lo stesso giorno. No, andare si deve, cadere si può, perdere anche ma darsi sempre la possibilità di non morire dinanzi allo stesso quadro. Qualcuno ti dirà che hai sprecato il tuo tempo, altri che hai smarrito la strada, ma tu sai che la stella che ti ha illuminato la via è quella dello stesso cielo che conoscevi. Il vento che ti scompone il vestito alla fermata del tram è lo stesso che fischiava tra i muri della vecchia casa. La sera e la mattina hanno la stessa cadenza e la medesima durata oggi come allora, sei solo tu che non sei lo stesso perché ora indossi le tue lacrime, i tuoi sorrisi, i sogni smarriti, le presenze ritrovate, vesti la vita che ti sei scelto non quella che ti è stata raccontata. Così si diventa uomini».

Poi, Giada aveva continuato con altre domande: «Il trapianto in un nuovo mondo, quindi, come scelta e poi tutti i ricordi, qual era quello che le tornava più spesso alla mente?»

«Quello delle rosse tentazioni. Giornate indimenticate! Scivolate nel tempo come le gocce rosse di quei pomodori, stesi ad asciugare su tavole poggiate in bilico, sui balconi infiorati di gelsomino e profumati di menta e basilico. Sembravano arazzi quelle tovaglie rosso fuoco, scarnificate dalle venature del legno che s’intravvedevano tra i rivoli e i semi di quei succosi frutti. Noi bimbi ci imbrattavamo le mani per assaggiarne qualche goccia, le mamme rimestavano ogni tanto per dare al sole estivo e al suo calore lo spazio di penetrare e separare l’acqua dalla polpa, fino ad arrivare a una crema densa e saporitissima da avvolgere in panni di cotone e conservare in contenitori di terraglia. In inverno un cucchiaio, stemperato con acqua e insaporito di odori, sarebbe diventato un sugo gustosissimo da usare come condimento di paste e ragù, anche senza carne. Ogni casa, in ogni strada, aveva più tavole di conserva e un pittore, in quei mesi estivi, avrebbe avuto modo di dare fondo alla sua ispirazione. I procedimenti erano tanti e si tramandavano come i gioielli di famiglia. Le ciliegine, i pachino, i perini, nomi diversi a secondo della forma che rendeva diverso anche il sapore; le donne li componevano in grappoli che poi si accavallavano sulle canne e si asciugavano. Noi e le bimbe, quelle particolarmente piccole, li staccavano e li mettevano alle orecchie come orecchini, scandalizzando le mamme che giudicavano uno spreco quelle birichinate. La sera, spesso ce li trovavamo a rondelle in insalate saporitissime, con le olive e si sposavano meravigliosamente bene con il pane mollicoso che intingevamo fino all’ultima goccia. Che profumi, che colori, che sapori, che giorni! Sono immagini che ho memorizzato e che riemergono dinanzi alle imitazioni che oggi ci troviamo a consumare. Questi sono i valori che si sono perduti perché la fatica e il sacrificio che li accompagnavano oggi sono insostenibili, manca il tempo, la vita è cambiata e le cose migliori sono diventate antiche. Oggi tutto si risolve a un anonimo tavolo di un ristorante di grido, con gente sconosciuta, dinanzi a piatti che non rispecchiano la nostra storia. Io, puntualmente, mi rivedo con altri bambini con, in mano, una grossa fetta di pane caldo, imburrato di salsa rossa e profumata e senza accorgermene apro la bocca con ingordigia ma il sapore che sento è soltanto quello amaro di un ricordo».

«Come fa un uomo come Lei a prepararsi a un intervento, a deporre tutti i suoi problemi di uomo prima di intervenire su una creatura umana?»

«Ho un mio sistema, una tecnica che io chiamo “la mia ipnosi”. Ci sono momenti in cui tutto ciò che osservi non fa parte di te: non ti riconosci nemmeno in tutte quelle cose che sono la storia dei tuoi giorni e delle tue notti. I tuoi occhi fissano ma non guardano, la tua mente abiura tutto quello a cui l’hai allenata e si adagia nella quiete di un silenzio innaturale. È un momento di “non vita” che la fatica del dolore impone e a cui ci si arrende con la stessa misteriosa consapevolezza con la quale ci si affida al sonno, dopo una sfiancante corsa. Vorresti tornare indietro e raccattare quelle minuzie di vita che, senza accorgertene, hai disperso lungo la strada, quei sorrisi appena accennati che, se incoraggiati, avrebbero potuto cambiarti l’esistenza. Un incontro non voluto, un regalo non capito, quell’assoluta incoscienza che, come una maschera, indossavi per nascondere l’insicurezza, l’inadeguatezza che ti pioveva addosso come un temporale d’estate. Sai che questo stato di grazia non dura a lungo e, quindi, non te ne curi, ti abbandoni con sollievo perché questa ipnosi non è per dimenticare ma per ripartire verso un cielo più azzurro, con nuovi progetti, con forze recuperate in quest’attimo di magia. Capisci che tu sei la malattia e la cura, che i sogni s’inseguono anche contro ogni logica e che il domani che vivrai non deve convincere nessuno se non te. Hai compreso che la vita ha delle pause e che, se le accetti, dentro di te si costruisce il tuo IO migliore, quello che racconterà la storia delle tue battaglie, vinte o perse, ma inevitabili per dare un senso a quella grande scommessa che è la vita».

«Qual è stato il suo più grande successo?»

«Era un anno freddo e c’eravamo talmente abituati alla neve, a un paesaggio trasfuso di bianco, a non uscire per non rischiare una caduta che adesso una giornata limpida, avvolgente per luminosità e calore ci sembra temporalmente fuori posto. Tutto è terso, il verde degli alberi sembra ridipinto, tutti i colori che ci circondano, hanno un’intensità che sembra dare loro più identità. Questo mi piace della neve: il potere di sciogliersi e portare con sé le incrostazioni che avevano mutato le cose, di dissetare la natura senza cambiarla, di regalarci un mondo più pulito, rinnovato, che ci costringe a guardare ciò che prima non osservavamo perché occultato dall’abitudine, dalla stanchezza dell’immaginazione costretta a lavorare per un tocco di novità. Si ha voglia di respirare profondamente, di uscire per il gusto di incontrare qualcuno che, con gli occhi, ci dica le stesse cose che sentiamo. Per strada qualche mucchio di neve ci rammenta che tante emozioni, sensazioni, dolori fanno fatica a sciogliersi e in certi casi ciò non avverrà mai, li ritroveremo dentro di noi come ricordi da vivere, quando la nostalgia e la melanconia ci terranno saldamente ancorati al costo di quello che abbiamo perso, volutamente e no. Sono processi non semplici, occorre la volontà di mettersi in gioco con sé stessi e questo avviene con l’aiuto dell’esperienza e della forza che possediamo. E se accade a un bambino di vivere un abbandono? Che cosa succede alle sue domande, alla sua paura, con che cosa riempirà quel vuoto devastante? Queste domande mi appartengono, cerco chiarezza perché sono testimone di un grande abbandono affettivo che ha sconvolto la vita di due bimbi che dovranno crescere senza quel grande e assolutamente unico amore che è quello di una madre. Giovane, con la legittima aspirazione di vedere crescere i suoi figli che erano il suo unico interesse, la madre ha dovuto lasciarli per una malattia che sembra, per la sofferenza che comporta, una punizione. L’hanno vista stanca, sofferente, smagrita, sempre con un accenno di sorriso per celare ai suoi bambini la sua fine. Ho vissuto con lei l’impossibilità di cambiare il suo destino, l’impotenza e la rassegnazione che con la fede, impediscono gesti inconsulti. Penso che l’unico modo di aiutare i suoi bambini sia quello di parlare di lei con loro, del loro vissuto, delle sue attenzioni, dei suoi gesti affettuosi e del suo desiderio di non essere mai dimenticata. Loro hanno tempo da vivere con una duplice verità: la sua mancanza che non finirà mai ma anche il suo ricordo che li seguirà per sempre. Ogni anno, quando è il compleanno della più piccolina, vado a trovarla con un pensiero ma soprattutto per abbracciarla, perché di amore avrà bisogno, e tanto da parte di tutti per provare meno male quando i suoi occhi, dopo averci guardato, cercheranno un viso ormai perduto. Questo tempo che talvolta ci condanna altre volte ci aiuta. Le leggi che lo governano sono eterne e per tutti uguali. La vita si dona tutti i giorni, si vive un anno dopo l’altro e si ricorda attimo per attimo. Sento anch’io la mancanza di tanti affetti che ormai vivono solamente nel mio cuore e nella mia mente. Oggi so che il tempo può essere sconfitto solo dall’amore e questo è ciò che tento di regalare a Ginevra per il suo compleanno, un ricordo che la aiuti a crescere senza sentirsi sola e con la serena consapevolezza di avere dinanzi tanta vita e alle spalle quella presenza rassicurante e tenera di colei che gliel’ha donato».

«Cosa pensa all’inizio di ogni settimana, ogni lunedì?»

«Penso che la staffetta della settimana riparte. Questo tempo che, inesorabilmente, si avvicenda portandoci nuove cose e togliendocene altre. Perché l’uomo ha bisogno di schematizzare temporalmente il tempo? La risposta è più semplice di quel che pensiamo: perché tutto ciò che è umano, compreso noi stessi, ha la sua caducità. Così tutto nasce, cresce e muore. Qualcuno o qualcosa sfugge a questa regola? Sì, il mondo emozionale, quindi i sentimenti e i ricordi, perché siamo solo noi che possiamo gestire ciò che proviamo e ciò che non vogliamo dimenticare. È strano che a sfuggire al tempo siano le cose meno tangibili o forse è giusto perché la materia di cui sono fatti è l’anima dell’uomo, le sue voglie, le sue curiosità, alcune che possiamo controllare e altre dalle quali ci facciamo dominare. C’è dunque in ogni uomo un pizzico di eternità, da conservare, da custodire o da regalare. In queste interazioni emergono le parti meno belle, fragili e caratteriali di noi. Talvolta non ci piacciono perché ci scoprono, ci rivelano non come vorremmo essere ma come siamo, facendo emergere storie, vissuto e travagli per cui abbiamo sofferto, ma che in fondo ci hanno fatto crescere. La libertà che l’uomo può esercitare su tutto è quella della scelta. Il suo libero arbitrio gli consente di scegliere i luoghi, i giorni e le persone con i quali condividere questo suo mondo sommerso. È una grande libertà che, se utilizzata bene, crea una vita interessante e ricca, come, se usata male, può creare rimorsi, rimpianti e fallimenti. Ogni lunedì penso, per un momento, che la nostra disponibilità sia condizionante nella possibilità di darci delle belle opportunità. Penso alla possibilità che mi è data di tentare di salvare altre vite e mi sforzo di iniziare la settimana con un bel sorriso»!

«Il suo caso più difficile»?

«Tutti per il valore che racchiudono.»

«Se le fosse chiesto, che cosa cambierebbe della sua vita?»

«Me lo chiedo spesso dopo un successo come pure dopo una resa. La risposta è sempre la stessa: nulla. La scelta, perché nel momento in cui la fai rappresenta ciò in cui credi, i successi perché mi hanno reso felice e gli insuccessi perché mi hanno fatto crescere. A tutto devo quello che oggi sono».

«Cosa la gratifica di più?»

«Sentirmi dire, come è successo, da una mia paziente: Grazie dr. Spreafico, Lei oggi dimette una persona più sana ma anche più saggia».

 


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Caterina Guttadauro La Brasca

Per leggere i precedenti capitoli, clicca qui:

  • CAPITOLO 1
  • CAPITOLO 2
  • CAPITOLO 3
  • CAPITOLO 4
  • CAPITOLO 5
  • CAPITOLO 6
  • CAPITOLO 7

 

Caterina Guttadauro La Brasca

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Andrea Giostra

 

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