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Romanzi da leggere online: decimo capitolo di “La voglio gassata”

domenica 7 Luglio 2019

La 27^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il decimo capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.

CAPITOLO 10°

La mattina seguente, dopo aver deciso di considerare l’accaduto della sera precedente solo un incidente, andai a svegliarla e fu veramente spiacevole trovare la bambina bagnata dalla sua pipì.

Era sicuramente un sintomo di disturbo della sua personalità e per aiutarla bisognava sapere di più di lei.

Scoprimmo presto la breve storia del suo passato, segnato dalla solitudine e dall’abbandono.

Le figure genitoriali erano state assenti.

La madre era alcolista, il padre sconosciuto, in poche parole l’unica casa che aveva conosciuto era un orfanotrofio, dove aveva vissuto con altri bambini immersi in situazioni analoghe alla sua.

In questi luoghi di raccolta dei bambini si usava l’imposizione e non la convinzione, di conseguenza reagivano solo alla violenza. Anastasia era autosufficiente ma non sapeva gestire l’autonomia, innanzitutto perché non ne comprendeva il valore e poi non sapeva relazionarsi con gli altri perché nessuno glielo aveva mai insegnato. Compresi, accorgendomi con mio grande stupore, che ne era quasi contenta. Non aveva ricevuto nessuna forma di educazione e, mio malgrado, certe volte l’ho dovuta rimproverare. Mi scaturì spontanea la considerazione che ero stata una bimba fortunata, amata e mai lasciata a se stessa. Ero nata da una scelta, non da un “incidente di percorso”. Tutto ciò che facciamo con un bimbo da piccolo sarà esattamente quello che farà dopo da grande, mediato ovviamente dal suo carattere personale. Queste idee mi portavano a scusare i suoi errori comportamentali e, ignari come eravamo che nella sua vita poteva essere successo tutto e il contrario di tutto. Io e mio marito convenimmo su una cosa palese: aveva bisogno di aiuto, prima ancora che di un padre e di una madre occorreva capisse qualcosa di se stessa. Ritenemmo giusto e sensato che ad interagire con lei, con il suo carattere, la sua incontrollabile vivacità, dovesse esserci un’addetta ai lavori.

Avevamo timore di intervenire su di lei in modo errato, non volevamo alimentare la ribellione, e la rabbia che manifestava platealmente buttandosi per terra, provocandosi anche delle ferite come volesse autopunirsi. Era troppo piccola per capire una realtà più grande di lei. Una sera io e Roberto ne parlammo.

«Roberto mi rendo conto che avevi ragione a dirmi di frenare ogni entusiasmo perché sono situazioni complicate, ad iniziare dalla difficoltà di non parlare la stessa lingua

«Sì, replicò mio marito, Anastasia è una ragazza violentata da una realtà che le è stata imposta e, probabilmente, il suo carattere è deviato per il suo passato

Questa supposizione non ci faceva accettare la sua rabbia, ma cercavamo di comprenderla.

A nostro parere, Natascia aveva subito tante violenze e, se possibile, volevamo allontanarne da lei il ricordo. Mi consultavo, quasi quotidianamente, con la psicologa che seguiva il gruppo dei bambini ospiti temporanei in Italia.

Dopo il primo mese ci sembrò che fosse più misurata nei gesti. Era triste constatare che una bambina non conosceva nessun gesto affettuoso, una carezza, il calore di un abbraccio, la serenità.

La sua era una fanciullezza negata.

Per me era incomprensibile mettere al mondo un figlio e poi sparire dalla sua vita.

Anastasia, crescendo, quante domande si sarebbe fatta, chi avrebbe potuto darle delle risposte? Avrebbe conosciuto l’odio, quello peggiore, per i suoi genitori?

Solo il tempo avrebbe risposto a queste domande.

Natascia aveva mai giocato? Con cosa? Mi accorsi che era affascinata dalle bolle di sapone, forse perché la loro vita era breve e si spegneva appena toccavano terra. Ecco, la bambina che c’era in lei finalmente emergeva, non mi sembrava vero, le comprai un numero incredibile di questi tubetti contenenti acqua e sapone.

C’era un filo di comunicazione adesso fra di noi, ma era fluttuante e delicato proprio come una bolla di sapone.

Ci sarebbe voluto tanto tempo per capirla, per conoscerla meglio, per insegnarle come l’amore esiste anche se lei non lo aveva ancora conosciuto, e il mondo non era ristretto ad un orfanotrofio, nella steppa russa. Ma i bimbi credono più a quello che vedono che a quello che sentono, perché l’apprendimento è più diretto, non filtrato dalla ragione e dai condizionamenti.

Ricordo una sera, decidemmo di vedere un film in lingua russa per farla sentire più a suo agio.

Il film era “Visita allo zoo.”

Notammo un’immediata reazione con cui scatenò tutta la sua sensibilità repressa, vedendo la leonessa lasciare andare il suo cucciolo in giro per il mondo.

Molto probabilmente anche lei si sentiva un cucciolo abbandonato, e si identificava in quel leoncino.

Lo rivedemmo tante volte insieme, e quando ritornava quella scena, voleva starmi accanto, mi prendeva la mano e la stringeva forte.

Forse aveva capito che tentavamo di comunicare con lei.

Non eravamo suoi nemici e fui felice tutte le volte che mi cercava per avere un sostegno, per aiutarla a superare il grande dolore di un brutto ricordo.

Il tempo è tiranno, proprio quando intravedevamo un sentiero da percorrere per capirla, arrivò per lei il momento di tornare in Russia.

Gli arrivi sono sempre gradevoli ma le partenze, temporanee o no, sono sempre un addio. Non sapevo quale segno avrebbe lasciato quella breve convivenza nella mia vita, ma, certamente, avevo vissuto dei momenti di grande confronto con me stessa, e il mio essere donna aveva assaporato la maternità anche se problematica. Mi segnò vederla ripartire, avevamo fatto, comunque, grazie a lei un’esperienza di famiglia e ho pensato che saremmo stati dei buoni genitori.

Ho una foto ancora oggi davanti ai miei occhi: quella bambina minuta, piccola in quell’aeroporto. Ritornava a casa con in mano le sue bolle di sapone, un po’ di fantasia del suo essere bambina che faticosamente eravamo riusciti a farle ritrovare.

Camminava lentamente; era l’ultima e la più piccola della fila.

Giunta alla scaletta prima di iniziare a salire, si voltò e disse una sola parola:< telefonami.>

Aveva forse capito che le piaceva ciò che stava perdendo, e questo mi fece sentire madre anche solo per un minuto, l’avrei ripresa con me perché non mi spaventava più, erano sparite la sua rabbia, le sue disubbidienze, con Roberto avevamo scongelato quel piccolo cuore ghiacciato.

Per un attimo, alla sua immagine si sovrappose una scena analoga da me vissuta e anche allora mi fu detta una sola parola: «Pensami

Anche quello fu un grido d’aiuto, allora lo ascoltai da figlia, oggi lo ascoltavo da madre e in tutti e due quei momenti fui impotente, non potevo fermare il tempo, però avrei potuto dare spazio al mio amore di madre e di figlia, avere meno insicurezza, rispondere al loro gesto con l’accoglienza di un abbraccio per dire ad entrambe che non le avrei mai più dimenticate.

In copertina: René Magritte (Lessines 1898 – Bruxelles 1967), «Gli amanti», 1928, cm. 54×73, olio su tela

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