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Romanzi da leggere online: nono capitolo di “La voglio gassata”

sabato 29 Giugno 2019
Ángel Zárraga (y) Argüelles, «Le calciatrici», 1922, cm. 146x114, olio su tela

La 26ª puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il nono capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.

 

CAPITOLO 9°

Una sera, su invito di un’amica, andai ad una festa. Ero combattuta perché non conoscevo nessuno, ma schiacciai i miei timori dicendomi:” Roberta tu basti a te stessa, tu sei il centro del mondo anche se da sola.” Conobbi in quella serata, un certo GianAndrea. Non tardò a telefonarmi l’indomani mattina, ad un orario fuori da ogni buona maniera. Mi invitò a cena, e dopo tante false scuse e incertezze, decidemmo di vederci la settimana successiva.

GianAndrea fu una piacevolissima sorpresa, era una persona ironica, un piacevolissimo conversatore e, soprattutto, sapeva ascoltare. Tutti questi punti a suo favore mi fecero innamorare. Ricordo ore intere passate accanto al telefono in attesa di uno squillo. Non impegnavo mai le mie serate per essere libera e poter accettare ogni sua proposta.

In lui vedevo l’amore della mia vita, ma purtroppo era un amore a senso unico. Questa esperienza mi fece provare il dolore della rinuncia, mi fece capire come è scomoda la parte di chi ama e non è riamato, che l’amore è ben diverso da una grande amicizia e che nulla è più sbagliato di confondere l’una con l’altra. Ho sprecato tanto tempo, ma mi ripagavano i bei momenti vissuti insieme.

Più volte mi dicevo: «Meno male che sono io ad amare di più, se anche per lui fosse così sarebbe già tutto scritto».

Io per lui era una cara e grande amica, ma solo un momento della sua vita. Queste scoperte mi lasciavano l’amaro in bocca, ma dopo prevaleva il mio ottimismo e il giorno dopo avrebbe potuto essere quello decisivo per la mia vita. Ero, comunque, una donna fortunata perché tutte le presenze maschili della mia vita mi avevano lasciato dei bei ricordi che, in un futuro lontano mi avrebbero fatto una buona compagnia, ma non volevo vivere solo di quelli.

In azienda, intanto, era stato assunto un ragazzo in sostituzione di Marcello. Vederlo al posto di Giacomo mi diede fastidio, e pensai con quanta facilità gli esseri umano siano sostituibili. Non importa se sei stato una persona capace, affidabile, cortese, tutto deve continuare ad essere e quello che c’era prima è già passato. C’era un filo sottile che legava il nuovo arrivato a Roberto: il nome, era lo stesso. Non ci crederete ma era una stranezza che avevo già notato: quel nome era appartenuto a tante presenze della mia vita.

Fu di allora la conoscenza con un dirigente della Tirrenia, Marco, che mi invitò a trascorrere le vacanze nella sua Sardegna. Era una persona gentile, premurosa e questo mi fece accettare il suo invito. Quando la mia fantasia dava il posto alla ragione, mi accorgevo che mi fidavo troppo del mio istinto troppo buonista, davo sempre delle attenuanti anche a comportamenti talvolta non corretti. Sicuramente non ero distruttiva, ma riparatrice. Forse fu questa considerazione che mi fece decidere di portare con me mia nipote Marzia, figlia di mio fratello, per avere una piacevole compagnia e sentirmi anche protetta.

Per lei, bellissima ragazza, era un’esperienza con la zia del cuore, ma io avvertivo la responsabilità in quanto, per età, avrei potuto tranquillamente essere sua madre. Pensai la vita toglie, la vita dà. Il rapporto che non c’era con mio fratello, forse inconsapevolmente, l’avevo costruito con mia nipote. La villetta che ci ospitava era un sogno, tutta bianca e ben arredata. Bello anche il paesaggio di quell’isola “selvaggia” e il suo mare prezioso, pieno di smeraldi.

Marco, essendo alta stagione lavorava, e la casa era tutta per noi. Scoprii il calore, l’ospitalità degli isolani ma anche il loro rispetto per le tradizioni, per i “vecchi” che erano la storia. In quella vacanza, apparentemente spensierata e giocosa perché innaffiata dall’entusiasmo e dall’incoscienza di mia nipote, mi posi una domanda: “Avrei voluto un figlio nella mia vita? Essendo stata troppo figlia avrei potuto essere una buona madre?

Lo avrei saputo anni dopo, sposata con Roberto quando provai ad immaginare la presenza di una bambina in casa nostra. Apparentemente il fatto di non averne avuto non era un grande problema. Ma ero cresciuta e sapevo che non sempre l’apparenza coincide con la realtà. Per quanto mi riguardava la vita era piena di contatti, di amici, di eventi che, forse, con la presenza di un figlio, avrei dovuto rimuovere, quantomeno trascurare.

Con mio marito Roberto avevamo affrontato l’argomento e non mi era sembrato ne sentisse la necessità, anche se percepivo come per lui tre fosse il numero perfetto. Mi rivedo in una sera di pioggia, entrambi seduti sul divano, quasi costretti a rivolgere l’attenzione su di noi, a percorrere la strada dei pensieri mai espressi, delle gioie evitate per non accorgersi di sbagliare. Il nostro mondo sommerso emergeva e simultaneamente, forse per la prima volta con sincerità. Roberto stava leggendo e reclamai la sua attenzione dicendogli: «Roberto, credi che due sole persone possono definirsi nucleo, cioè famiglia?».

Lui mi rispose: «Non è una questione di numeri, la famiglia è dove c’è amore, ma la presenza di un figlio l’arricchisce, la perfeziona.»

«A te manca?»

Incalzai io.

Mi rispose: «mentirei se ti dicessi di no o perlomeno è un’esperienza che avrei voluto fare, nonostante il rischio di poter dire alla fine che non ne era valsa la pena.»

Pensai: «ma dove è andato a finire il mio istinto materno? Che diritto ho io di non permettergli di misurarsi con la paternità!»

Il mio orologio biologico non scandiva l’ora esatta ma una soluzione poteva esserci e la conoscevo.

«Perché non ne adottiamo uno?» Gli chiesi.

La sua risposta fu immediata: «No, per me un figlio è un prolungamento di noi, credo nel legame di sangue per mezzo del quale si trasmettono ad un figlio, carattere, tendenze e valori. Certo, l’educazione e l’ambiente fanno poi la loro parte ma tra un padre e un figlio c’è un passaggio di consegne genetico.»

Mi dispiacque che mio marito avvertisse la mancanza dell’esperienza della paternità e gli dissi: «Ho sempre sentito dire alle mie amiche come un figlio ti rivoluzioni la vita; non hai più tempo per te stesso, tutto poi fa riferimento a lui, si diventa “noi” ma rinunciando a molto di “sé”».

Mi rispose: «questo ti fa paura? Un figlio è un impegno, certo, ma d’amore, vivi sempre insieme a lui e costruisci i tuoi e i suoi ricordi, gli insegni quello che sai, è qualcuno da tenere per mano avendo il coraggio di lasciargliela andare quando è giusto che viva la sua sola vita mettendo alla prova sé stesso.»

Gli chiesi: «Ti va di ospitare in casa nostra una bambina della Bielorussia? Sai quei bambini ospitati per qualche mese. Questo non implica l’adozione, è solo un affido temporaneo. Sarebbe un’esperienza che ci farebbe misurare con la realtà di convivere con un bambino anche se non è nostro figlio naturale».

«Si può provare – mi rispose – anche se da qualcuno ho sentito dire di esperienze deludenti.»

Pensavo che forse la parte più profonda di me aveva finalmente manifestato una carenza di maternità, quantomeno una verifica di quanto mi mancava. Mi dispiacque non essermene accorta prima, quando la natura mi consentiva di darlo al mondo io stessa, ma ogni cosa ha un tempo e, forse, il mio era quello che stavo vivendo.

Così facemmo richiesta, e finalmente una sera andammo all’aeroporto di Forlì a prendere la bimba che sarebbe stata nostra figlia per tre mesi. Si chiamava Anastasia, era bionda ed aveva otto anni. Nessun bagaglio se non un sacchetto che conteneva qualcosa da mangiare. Non capiva una parola d’italiano, esattamente come noi non conoscevamo una parola di russo. Aveva un viso serio, troppo per i suoi anni.

Questo ci impedì, da subito, di entrare in contatto con lei e ci scambiammo un saluto molto approssimativo. Non era timida perché, pur non conoscendoci, in macchina ci chiese di poter ascoltare della musica. Questa richiesta ci piacque perché intravidi una possibilità di comunicazione tra noi. Non so definire il nostro stato d’animo, poiché non avendo mai avuto bambini non osservammo precauzioni per tutelarla e, subito, ne avemmo la conferma. Non controllammo se erano in sicurezza gli sportelli posteriori.

Anastasia si dimostrò molto vivace subito, riuscì ad aprire lo sportello mentre camminavamo in autostrada. A me e mio marito si gelò il sangue, la fortuna ci venne in aiuto perché l’autostrada era deserta e questo permise a Roberto di rallentare e chiudere lo sportello. Questo episodio, per quanto mi riguarda, mi sconvolse, in quanto mi fece intuire che “quegli otto anni” sarebbero stati difficili da gestire. Avrei dovuto imparare a controllare la mia emotività ed a prevenire i suoi comportamenti per evitare grossi pericoli. Ecco le incognite di cui parlava mio marito, ma tenni per me questo pensiero per non spaventarlo.

Non mi sentivo né pronta né in grado di affrontare tante incognite tutte insieme. Il risultato fu una notte insonne, gli occhi spalancati a tentare di immaginare il vissuto di Anastasia che non conoscevamo, e la sua vita in un paese molto diverso dal nostro.

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