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Romanzi da leggere online: ultimo capitolo di “Silenzi d’amore”

sabato 27 Aprile 2019
Inna Varivonchik, «Ci sono», 2017, olio su tela, cm. 50 x 60.
Inna Varivonchik, «Ci sono», 2017, olio su tela, cm. 50 x 60.

La 17^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online”, conclude l’ultimo capitolo del romanzo “Silenzi’ d’amore” di Caterina Guttadauro La Brasca.


VIII CAPITOLO

Cesco fa parte del nostro passato, della nostra famiglia, ma per volere della nonna, è stato volutamente occultato come è stato fatto con gli oggetti che ci circondano. Beh! Penso sia giunto il momento di togliergli la polvere di dosso e di farlo nascere, restituendogli un’identità, bella o brutta che sia. Io ne sono stata informata, perché qualcuno doveva sapere, con la condizione di mantenere il segreto.

Cesco era uno dei figli della nonna, con mamma e zia Tiziana ed era il più fragile. Era un bel giovane, forse il più estroso, niente lo impauriva e lottava coraggiosamente se era convinto di meritarsi qualcosa. La nonna cercava di tenerlo vicino per poter gestire questa sua esuberanza e voglia di mettersi in gioco.

La Prima guerra mondiale era alle porte e i giovani erano animati dalla voglia di difendere la loro Patria. Chi era in età di leva veniva richiamato, chi partiva volontario era desideroso di essere con gli altri a difendere la nostra Italia. Questi fermenti non potevano non coinvolgere un temperamento avventuroso come Cesco.

La guerra di cui aveva sentito parlare agli anziani per lui non era solo pericolo, possibilità di morte, ma una sfida in cui dimostrare il proprio coraggio, la propria storia da vivere in maniera estrema, incontrare faccia a faccia quei soldati la cui volontà era di rubarci la Patria. Un giovane che non si offriva volontario era un codardo.

Così, un giorno, il vento che tutto muove si portò via lui e due suoi amici. La mamma mi diceva sempre di non aver mai dimenticato quei volti di ragazzi che sventolavano una bandiera in piedi sui camion.

Lasciavano il certo per rincorrere le loro fantasie, il loro voler diventare uomini.

La mamma odiava la guerra. Stava, piano piano, portando via tutti i giovani del paese, lasciando solo le ragazze a sprecare i loro anni migliori in attesa di chi sarebbe tornato.

La grande guerra non fu diversa dalle precedenti. Si viveva racimolando qua e là qualche po’ di cibo, riunendosi a sentire le notizie divulgate dalla radio. Si trasmetteva quello che il regime consentiva.

Qualche mamma metteva al seno il suo bambino, più per rassicurarlo che per nutrirlo; si mangiava pochissimo, ci si nutriva di spavento, di fave, fagioli e ceci. Ognuno aveva nascosto, pensando ai momenti brutti.

Di notte, quasi tutte, gli allarmi suonavano, sconquassando il sonno, tutti correvano nei rifugi, dove con i piccoli in braccio, coperti alla meglio, aspettavano che passasse l’attacco. Quei ragazzi partiti dovevano riportare a casa la vita, ritornare dai loro cari, i nostri nemici erano la fame, la povertà, il dolore, il freddo.

I campi erano stati prima abbandonati, poi invasi dalle mine e qualche donna, tentando di raccogliere qualcosa aveva perso un pezzo di sé.

Si lottava con un nemico più forte e niente sarebbe più stato come prima. Le donne non potevano dire questo ad alta voce perché i vecchi si arrabbiavano e alzando la voce dicevano: “State zitte, donne ignoranti, l’amor patrio dov’è finito?

La paura non deve sopraffare il coraggio. Essere italiani vuol dire che l’onore nazionale è nelle nostre mani!”.

Ogni tanto qualche ferito, non potendo più combattere, ritornava e lo assediavano tutti per sapere notizie dei propri cari. I ragazzi partiti con Cesco raccontarono che lui conduceva la sua guerra con coraggio. La nonna ritornava a casa senza aver capito molto. La cosa più importante era sapere se fosse ancora in vita. Il nonno, invece, era orgoglioso di quel figlio che riscattava l’onore di tutta la famiglia con il suo coraggio. Era ormai vecchio, altrimenti gliel’avrebbe fatto vedere lui agli invasori, quei senza patria che venivano a rubarci le donne e l’onore.

Si combatteva dappertutto, a decidere erano in quattro ma a morire in migliaia. Il sangue dei nostri giovani si era mescolato alla terra, all’acqua dei fiumi, alle note del silenzio. C’erano poi quelli che avevano perso, oltre alla vita, la loro identità, per cui non si sapeva dove cercarli, dove piangerli; furono tutti raggruppati sotto un nome: Milite Ignoto. Le madri di questi soldati piangevano non solo il proprio, ma anche i figli delle altre donne e, come per farsi carico di tanto dolore, non smettevano più il lutto.

Piano piano i sopravvissuti rientravano, segnati fisicamente, chi con le stampelle, chi con ferite che difficilmente si sarebbero rimarginate. La nonna, come tutte le madri, cercava di recuperare cibo per le ragazze dimagrite paurosamente e si scambiava di tutto pur di mangiare.

Al Vespero andava, con le altre Donne, tra le macerie di quella che era la Chiesa a recitare il santo rosario perché Dio riportasse a casa i dispersi.

Poi, un giorno senza speranza come tutti quelli che l’avevano preceduto, vide arrivare due uomini, sul far della sera.

Erano smunti, i vestiti lisi, uno portava un braccio legato al collo e con l’altra mano sorreggeva il suo amico che sembrava estraniato e impaurito. La nonna, seppur ci vedesse poco, riconobbe Cesco, gli corse incontro e quando l’ebbe raggiunto, abbandonando per una volta il suo controllo, gli prese il viso tra le mani e gridando il suo nome lo baciò dappertutto. Cesco sembrava spaesato, toccato da tutti, come un acquasantiera.

Che fare? Un uomo soprannominato dai commilitoni “Fulmine”, per la velocità con cui riusciva, nelle missioni, a coprire le distanze, a sfuggire correndo alle imboscate, a evitare i colpi quando erano individuati dal nemico, come poteva essere disorientato dall’abbraccio di sua madre?

Comunque era ritornato, quella guerra non era riuscita a rubare nessuno alla nostra famiglia. Ma non era così, e presto lo capimmo.

Per ordine del nonno, nessuno per qualche giorno pose domande a Cesco, per fargli dimenticare la guerra e farlo sentire a casa, al sicuro. Invece quella guerra Cesco non l’avrebbe mai dimenticata, poteva farlo solo se gli strappavano il cuore.

La nonna fu la prima a capire che quel figlio non era più lo stesso, parlava di meno e quello che diceva non sempre era chiaro. Iniziava un discorso e lo inframmezzava di silenzi, talvolta era visibilmente spaventato e i suoi occhi sembravano attoniti come fossero ancora dinanzi a scene di violenza, allora si prendeva la testa fra le mani e piangeva.

Queste scene si ripetevano anche di notte come veri e propri incubi che la nonna interrompeva per non vederlo soffrire: gli asciugava il sudore e se lo teneva stretto al petto, finché si calmava e riprendeva sonno.

Forse stare in mezzo agli altri gli avrebbe fatto bene; così la nonna costrinse suo marito a portare con sé Cesco quando andava al bar dove si parlava di armi e di donne. Secondo lei bisognava scuoterlo perché era bloccato. Era successo in paese che persone nel suo stato, rimesse di fronte a un nuovo spavento, erano guarite.

La nostra mamma era la sorella prediletta, riusciva a scuoterlo da quel torpore, a farlo sorridere, gli faceva vedere i suoi disegni e in alcuni c’era anche lui. Certi giorni sembrava quasi normale. La parola guerra era stata bandita dai discorsi e, se capitava che qualcuno la pronunciasse, Cesco si allontanava dicendo di avere un’ape che gli ronzava nella testa. Era il passato, quindi, doveva rimanere congelato nella sua mente.

Il medico ci rassicurava; piano piano avrebbe rimosso il suo passato e sarebbe tornato come prima. Sì, intanto passavano i suoi anni migliori.

“Quella sporca guerra ‒ pensava nonna ‒ aveva sconvolto tutto: vite, cuori, famiglie, i giovani erano diventati improvvisamente vecchi e gli anziani si sentivano fuori gioco. Si dice sempre che è bello crescere insieme ai propri figli, ma in realtà questo non accade perché non si percorre la stessa strada. Quando loro crescono noi invecchiamo, i loro bisogni non sono più i nostri, loro progettano la vita noi, bene o male, l’abbiamo già vissuta.”

Un giorno il vecchio postino recapitò alla nonna una busta sgualcita.

Tenendola stretta, lei prese gli occhiali e andò a leggerla in bagno. Voleva, disse poi, leggerla con calma perché se era lo Stato che chiedeva qualcosa ai suoi figli, avrebbe strappato tutto a costo di mangiarne i pezzi. Invece erano tanti foglietti, scritti maldestramente, con tante cancellature e tanti cuoricini che si alternavano alle parole rivolte a Cesco.

La nonna riuscì a capire che si trattava di una ragazza di nome Miriam. Lo aveva curato come crocerossina quando era stato ferito e in mezzo all’inferno avevano trovato il loro paradiso. Mio Dio, pensò nonna, è come se anche loro avessero combattuto quell’atroce guerra, stando vicine ai soldati morti e feriti. C’era una piccola foto di quella bella ragazza, mora dagli occhi neri, profondi e con un bel sorriso che, nonostante la guerra, aveva mantenuto. Le date in calce facevano capire che erano stati per molto tempo a contatto, avevano fatto progetti insieme e scalato i giorni facendo una croce sopra: volevano lasciarsi la morte alle spalle.

Ci teneva a conoscere la sua famiglia e aggiungeva che, nonostante tutto, era quasi grata a quella guerra, perché li aveva fatti conoscere. Lei lo aveva amato per il suo coraggio e la sua allegria.

Nonna capì come, nella brutta esperienza di una guerra, suo figlio avesse trovato l’amore e pregò Dio che quella ragazza fosse ancora viva, perché solo così Cesco poteva ritornare a vivere. Le guerre, militarmente sono degli uomini, ma quelle delle famiglie sono quasi sempre combattute dalle donne e con la forza di cui talvolta non ci credono capaci. Per un attimo la nonna pensò di parlarne al nonno ma decise di non farlo perché si sentiva nelle orecchie cosa avrebbe detto: “Le donne devono uscire di casa solo per andare in Chiesa”.

Si tenne tutta la notte la busta sotto il cuscino e non chiuse occhio, ma quando si alzò ebbe chiara una cosa: doveva sapere cosa era successo a Miriam, se era viva l’avrebbe trovata; intanto il bigliettino con la sua foto decise che l’avrebbe dato a Cesco perché, pensava, vederla potesse scuoterlo, fare affiorare alla sua mente ricordi del loro recente passato. La mattina, quando rimasero soli, lo fece sedere davanti a lei come faceva quando era bambino, anche se adesso non riusciva più a tenere le ginocchia dentro le sue per farsi prestare attenzione.

Il suo ragazzo era cresciuto e lei era invecchiata, la sua presa era debole. Avrebbe preferito vederlo scappare, come faceva allora, piuttosto che vederlo rimanere indifferente a ogni cosa. Gli accarezzò il viso, inciampando con le dita sui peli della sua barba e, guardandolo fisso, gli mise la foto in mano.

Cesco la prese, la sollevò all’altezza degli occhi, la portò al naso come per aspirarne il profumo, la girò e vide il viso di Miriam. Scattò qualcosa nella sua mente perché, agitandosi, la chiamò. Lesse le parole e un accenno di sorriso apparve sulle sue labbra. La nonna provò a forzare quella fessura che sembrava essersi dischiusa. Gli chiese dove fosse il posto in cui si erano incontrati.

Dalla descrizione fatta da Cesco e dalle informazioni acquisite dalla nonna sui luoghi dove avevano combattuto, capì ed era pronta subito a partire con il figlio per ritrovare quell’amore di ragazza che lo avrebbe salvato da una depressione sicura.

Forse sarebbe ritornato il Cesco di una volta, quel suo ragazzo che viveva di sogni impossibili, che lei riprendeva perché faceva pesanti commenti alle ragazze. La nonna, aiutata da nostra madre riuscì a leggere il nome del paese dove era stata imbucata la lettera e volle mandare al Sindaco la richiesta di notizie su Miriam. Secondo la nonna, la speranza era l’ultima a morire, ed era l’unica cosa che potevano permettersi a quei tempi, perché non si pagava.

Da quel giorno, qualcosa cambiò ma bisognava decodificarne il significato: Cesco tutti i pomeriggi, alla stessa ora, dopo essersi lavato e pettinato, usciva e rientrava dopo due ore senza dire alcunché. Vederlo reagire li faceva sperare che un particolare riaccendesse nella sua mente la memoria, proprio come in un film.

Aveva ripreso ad andare in campagna con il nonno, lo aiutava, lo ascoltava e, talvolta, sorrideva alle sue battute. Tutti speravano che quella lettera arrivasse a destinazione e che la guerra non avesse cancellato la persona di cui speravano di ricevere buone notizie. Si abituarono a quella nuova normalità e la tennero stretta con quella coesione che è frutto di un amore che fa miracoli.

Un giorno, alla solita ora, vedemmo la figura tarchiata di Pasquale, il postino che a piedi, mani sul manubrio e sacca in spalla, saliva faticosamente la strada. Si fermò da noi e cercò dentro la borsa mentre nonna andava a prendergli un bicchiere di acqua e anice. Quegli uomini, compresi com’erano del loro ruolo, si sentivano importanti, soprattutto in tempi di guerra, quando una notizia era motivo di vita.

La nonna prese i suoi occhiali già abbondantemente aggiustati e si sedette per leggere. Il sindaco comunicava che Ceschina, così la chiamavano tutti, era stata una valorosa crocerossina, aveva curato tante vite di giovani militari.

Essere in un ospedale da campo era come essere in trincea. Non c’era giorno o notte, tempo per mangiare o riposarsi. Ogni minuto era dedicato ai feriti, a quelli da curare e a quelli ai quali si poteva solo abbassare le palpebre per coprire pietosamente quello sguardo, attonito per quanto avevano visto.

Ceschina aveva scritto per chi non poteva farlo, aveva fatto promesse che sarebbe stato difficile mantenere. Tutte le volte che arrivavano dei feriti, aveva paura di guardare perché avrebbe potuto trovarsi dinanzi il viso di Cesco. Quella sera era uguale a tante altre, tanti ragazzi feriti aspettavano di essere medicati. Il medico e Ceschina ormai stanchissimi, cercavano di operare i più gravi, mancavano medicine, anestetico e, per far soffrire di meno, si usava l’alcool e qualcosa da stringere tra i denti.

Cesco aveva involontariamente ascoltato le parole di un soldato, venuto ad avvertirli che stavano per tendere un’imboscata e sarebbe stato coinvolto anche l’ospedale da campo. Pensò a cosa sarebbe potuto succedere, dinanzi a sé vide il viso della sua ragazza, quei feriti non erano in grado di muoversi. Senza indugiare si mise a correre per arrivare prima possibile in attesa di altri rinforzi.

Mentre correva, accadeva di tutto: cadevano bombe, razzi che illuminavano a giorno per colpire in maniera mirata gli obiettivi. Era quasi arrivato, con un senso di sollievo, quando una bomba colpì in pieno l’ospedale da campo, rubando a Miriam la vita. La nonna rimase dispiaciuta e ammirata per il coraggio di quella ragazza che aveva speso la sua vita per salvare quella degli altri. Finalmente avevano capito cosa era successo: la mente di Cesco si era fermata nell’attimo in cui aveva visto scoppiare l’inferno attorno a lui, aveva pensato al suo ultimo sorriso, non era riuscito a proteggerla.

Erano stati colpiti in pieno, Cesco cercò, pur nelle sue condizioni, di portare in salvo più compagni possibile, sembrava una lepre correre a perdifiato tra gli alberi. Deposto il primo soldato via con il secondo, fino allo sfinimento, a quella perdita di coscienza che, in qualche modo gli salvò la vita.

Si risvegliò, il giorno dopo, in un letto estraneo, con addosso gli sguardi di una donna e tre bambini che, con il loro silenzio, chiedevano risposte. Provò a parlare ma non riconobbe il suono della sua voce, si sentiva estraneo nel suo stesso corpo e la sua mente non rispondeva ai suoi comandi. Avrebbe affrontato un’altra guerra, più estranea della prima. La donna, con l’intuito tipicamente femminile, capì che doveva curare le ferite di quel corpo lacerato e lo fece con cura, come qualche altra donna avrebbe potuto fare con suo marito.

Già, perché la guerra ti fa sentire moglie e madre di tutti coloro che combattono, la tua identità si identifica con il valore, con chi è più debole e tu puoi aiutare. Cesco la guardava mentre, con gesti sicuri, puliva, disinfettava e bendava con pezzi di lenzuola candide. Era una bella donna, la guerra avrebbe fatto invecchiare precocemente.

Il torpore faceva seguito ai piccoli momenti in cui prendeva coscienza di una realtà a lei estranea. Qualche passo in più e sarebbe morto anche lui. Invece, rimase svenuto quel tanto che permise al nemico di crederlo morto, e in effetti morto lo era ma dentro.

Quando si risvegliò si ritrovò in una casa dove lo avevano portato i compagni per prestargli le prime cure. Curarono le ferite che, con le medicine, potevano guarire ma l’altra, invisibile e devastante la potevano curare solo Dio e il tempo. Sarebbe stato giusto dirgli la verità ma la nonna aveva paura di farlo morire dal dispiacere e volle continuasse tutto come prima. Così Cesco seguitò, tutti i giorni, a uscire, alla stessa ora e un giorno non si accorse di essere seguito da sua sorella interessata a vedere dove andasse.

La zia si accorse che, al suo passaggio, delle ragazze lo guardavano perché era bello, il dolore sembrava aver reso la sua bellezza più delicata, il suo sguardo misterioso e, di quei tempi, di ragazzi così la guerra non ne aveva lasciati tanti.

Raccontò, dopo, di averlo visto entrare nella loro campagna appena fuori paese; dopo aver aperto il cancello e richiuso con un fil di ferro, si diresse sicuro allo spiazzo, prese una sedia, la mise accanto alla panca di pietra, colse un fiore rosso dal ramo del melograno e, con la foto di Miriam, lo mise sulla sedia; si sedette, quindi, sulla panca e aspettò due ore. Trascorso quel tempo, rifece tutto all’incontrario e ritornò a casa.

Questo rituale fu osservato per tanti anni, ogni pomeriggio, Cesco andava al suo appuntamento che per lui non andava a vuoto. La sua mente collocava le immagini dove lui voleva e ciò che per gli altri non esisteva per lui c’era e là dove doveva essere.

Convennero tutti di non tentare di risvegliarlo dalla sua realtà avrebbe significato togliergli il sogno della sua vita, per cui proseguirono in una finzione che, una volta tanto, non era proprio una bugia ma una mancata verità.

Passarono gli anni, la famiglia visse le sue giornate più belle assieme a quelle più brutte. Tutte le donne si sposarono, il nonno si arrese alla vecchiaia da lui chiamata “età bastarda” e a rimanere insieme furono proprio loro due, nonna e Cesco, che continuarono ad andare avanti un giorno dopo l’altro. Lei si coccolava il bambino presente in quel ragazzone e lui, ogni giorno, andava al suo appuntamento con una foto e un fiore.

La nonna aveva sempre chiesto a Dio una grazia: di prendersi Cesco prima di lei perché nessun’altro avrebbe potuto aiutarlo. Certe volte, non lo aveva detto a nessuno, le sembrava di essere diventata anche lei protagonista di una storia impossibile e sapeva che qualcuno in paese la criticava per alimentare una fantasia invece di mettere suo figlio dinanzi alla realtà anche se crudele.

Dio esaudì le sue preghiere e un pomeriggio, non vedendo ritornare il suo ragazzo, prese lo scialle e con passo stanco, uscì, sapeva dove cercarlo. Quando raggiunse il podere, quasi senza stupore, lo trovò addormentato con in mano un fiore e una foto. Il sorriso sulle sue labbra diceva che la morte gli era stata amica.

La nonna si sentì mancare, si avvicinò al pozzo per bagnarsi le mani callose, le poggiò sul viso, sugli occhi ormai senza lacrime e si sentì sola.

Capì che Cesco ormai non avrebbe più avuto bisogno di lei. Si sedette per l’ultima volta accanto a lui, sulla panca e, guardandolo, pensò che, nonostante tutto, lo avrebbe rimesso al mondo quel figlio bello e sfortunato.

Provò a cercare la chiave della porta nascosta in una buca del muro, coperta da un sasso e si stupì nel vedere che c’erano tanti bigliettini arrotolati, tutti a Miriam. Dicevano la stessa cosa: “Miriam, non ti ho mai mentito. Siamo insieme ogni giorno, la morte tanto temuta si è dimenticata di noi e sei rimasta giovane e bella come questo fiore che raccolgo fresco tutti i giorni per te.

Ti avevo promesso che i tuoi begli occhi non avrebbero mai versato lacrime, questa è stata la mia più bella vittoria. Mia madre ti avrebbe amata. Cesco”. Una lacrima, forse l’ultima, bagnò gli occhi della nonna. Nonostante senza forze, mise in tasca quei bigliettini e abbracciò per l’ultima volta quel figlio che le aveva insegnato cose ancora sconosciute: la verità è quella in cui ognuno di noi crede; la nostra storia è solo quella che sappiamo vivere; non essere capiti dagli altri non vuol dire essere sbagliati, solo diversi.

La nonna, senza quel figlio, si lasciò vivere come un ceppo che si abbandona alla marea, ma lei non sapeva più nuotare e, un giorno, si lasciò trascinare senza voltarsi a guardare chi e cosa lasciava, ma guardando avanti, verso chi andava a raggiungere.»

Mia madre fu intenerita dalla storia raccontata da Emma. Un altro segreto, custodito questa volta da sua sorella. Peccato che nessun altro ne fosse a conoscenza! L’abitudine era quella di raccontare solo le storie forti, coraggiose concepite per servire da esempio ai giovani. Ma cosa c’è di squalificante nella fragilità, nella debolezza e nel coraggio di esibirla? Si sentiva figlia di un altro tempo e ne fu felice. Le piacque la constatazione di assomigliare alla nonna in quella voglia di protezione che si portava dentro, salendo le scale della soffitta.

«Tutti si erano ritirati e, per ultima, mi avviai per raggiungerti nel lettone dove dormivi, serena e naturalmente scoperta. Prima di andare a letto, come d’abitudine, mi affacciai un attimo dal balcone: piovevano stelle quella notte e immaginai la terra come una grande torta al cioccolato con tanti coriandoli colorati, rappresentavano i sentimenti degli uomini per una volta in pace tra di loro.

Il giorno dopo, come sapevamo, iniziò alle cinque di mattina, tra uno sciabordio di colori, di vestiti, di cappelli.

I primi a prepararsi furono gli uomini. Fortunatamente, non badavano all’eleganza e indossarono quello che era stato loro preparato senza alcun commento. Le donne si sa, siamo più complicate e mai soddisfatte: ci si incrociava, in parte svestite, con grucce in mano, con bigodini in testa, c’era la stessa animazione che precede una manifestazione importante.

Si diede la precedenza ai più piccoli perché avevano bisogno dell’aiuto dei grandi. Vestimmo le damigelle e fu uno spettacolo vedervi, pronte nel vostro vestito rosa, i capelli acconciati sulla nuca con una coroncina di zagara per richiamarsi al bouquet della sposa. Eravate molto belle. Io, Emma ed Anna non riuscivamo a non guardarvi per imprimere nella nostra mente quell’immagine che ci rendeva orgogliose e consapevoli di essere fortunate.

C’eravamo proprio tutti, sentivamo la presenza anche di quelli che ci avevano lasciato. La nostra casa fu il tempio della loro promessa, del loro giuramento che inevitabilmente, a ognuno fece rivivere il suo.

Françoise, nel suo splendido vestito di pizzo, era bella come solo una sposa può esserlo nel giorno destinato a cambiarle la vita. Oltre a essere fisicamente gradevole, era bella, la sua bellezza veniva dalla sua interiorità, dal suo modo di essere, che lei trasponeva in tutto il suo operato.

Fu accompagnata all’altare da suo padre ed Emma era al braccio di Filippo. Io ero al braccio di papà mentre guardava commosso il tuo incedere lento e aggraziato mentre tenevi un lembo del velo di Françoise.

Sentivo i suoi occhi indugiare su di me e mi girai accennando un sorriso come a confermare quella promessa che gli avevo fatto tanti anni prima. Anna era accanto a noi; era l’unica di noi sorelle a non poter associare quel momento a una esperienza vissuta. Tra noi era la meno fortunata e mi faceva pensare come questa constatazione potesse farla sentire sola.

Io e le mie sorelle avevamo scelto delle stoffe morbide dai colori vivaci per i nostri vestiti, avevamo voglia di sentirci osservate, di ricevere dei complimenti, di piacere con la consapevolezza di pensare a una tregua con quel tempo che, avanzando inesorabilmente, regala ricordi e sottraeva speranze. Non avevamo badato a spese. I matrimoni, d’altra parte, erano un misto tra mondanità, evento storico familiare e, per quel giorno, tutti ci si sentiva diversi dalla normalità. Tuo padre cercava di non lasciar trapelare, soprattutto con me, la tristezza di doverti veder andare in città per continuare gli studi. Avevamo optato per un internato che ti avrebbe protetto da ogni pericolo.

Eri proprio diventata bella e tuo padre guardandoti, mi rivedeva da giovane e fingeva di essere offeso per non essere riuscito a darti qualcosa di suo.

Ci siamo sempre capiti io e tuo padre e questo rendeva più intensa la complicità del nostro rapporto. Era rispettoso dei bisogni degli altri, ma esigeva la puntualità e la sincerità. Tante volte gli ho visto allungare dei soldi a qualche nostro operaio in difficoltà.

Quel che mi piaceva di più di quei gesti era di essere sempre ammantati di silenzio. Era gigantesco ai tuoi occhi quando, di sorpresa, ti veniva vicino sul cavallo pezzato e sapendo di farti cosa gradita, ti avvolgeva con il suo braccio e ti issava sul suo cavallo portandoti con sé a radunare la mandria o, più semplicemente, arrivare al fiume dove si abbeveravano gli animali e tu ti divertivi a cercare i ciottoli colorati, dalle forme strane, che si intravedevano nella trasparenza dell’acqua.

Tutto si svolse al meglio, tra sorrisi, auguri e qualche lacrima. Ritornati a casa ci stavamo rilassando per dare riposo ai piedi, finalmente liberi da quei tacchi portati tutta una giornata e diventati strumenti di tortura.

A un tratto, Emma disse che aveva ancora una cosa da fare. Si assentò e dopo alcuni minuti tornò appoggiando sul tavolo un oggetto incartato.

Destò la nostra curiosità, seguivamo con gli occhi i suoi movimenti per disfare la carta e i nodi che, con tanta cura, aveva eseguito. Venne fuori un piccolo pianoforte di legno bianco a chiazze verdi che era un gioiello in miniatura.

Quell’oggetto, in proporzioni più grandi, aveva sempre fatto parte della vita degli sposi, quei tasti bianchi e neri avevano suonato e trasmesso emozioni a tanta gente.

Questo pianoforte non lo aveva mai visto nessuno e consegnandolo a loro, mia sorella fu ancora una volta protagonista di un fatto a tutti noi sconosciuto. Rimanemmo tutti zitti ad ascoltare le sue parole:

«È vostro, non avrei mai pensato che un giorno avrei potuto disfarmene, ma certamente lo custodirete come ho fatto io. Non è, come può sembrare, un giocattolo, ha una storia con tanto amore, perché chi me lo ha donato mi amava tanto. Da piccola ho giocato sui suoi tasti e quella musica stonata che si sprigionava quando li toccavo mi ha sempre incantato.

E’ raro che i bambini conservino i loro giochi ma questo, aveva un particolare significato, perché era legato a un episodio che mi ha visto protagonista e la memoria non lo ha mai offuscato.

Oggi comincia un’altra storia, la vostra, e io voglio che un giorno mio nipote possa suonarlo ricordandosi di me»

Li abbracciò entrambi e finalmente ci ritirammo per prolungare nel sonno le cose belle vissute in quella giornata.

La mattina dopo, davanti a una tazza di caffè, mentre la casa era immersa nel silenzio, tutti ancora dormivano, Emma mi raccontò: “Ieri sera coricandomi sapevo che avrei rivissuto quel fatto sempre vivo nella mia memoria, e non avevo mai narrato per non dividerlo con nessuno.

Ci sono ricordi che diventano lembi della nostra anima e non si raccontano per non privarci della loro capacità di guarire i nostri momenti tristi. Non riuscivo ad addormentarmi, cosi guardando il soffitto della mia camera da letto, si sfumava il presente e, sfogliando tante pagine a ritroso, mi ritrovai all’età di sei anni, assieme ai nostri genitori e alla mia madrina in una via principale della città vicina al nostro paese.

Era una delle nostre ‘discese in città,’ occasione nella quale condensavamo più impegni nella stessa mattinata.

Per raggiungere la città si attraversavano parecchi tornanti; noi non eravamo abituate ai percorsi in corriera, tutte le volte ci sentivamo male, ci assalivano le nausee, i capogiri. Il malessere dei viaggiatori faceva raddoppiare il tempo del percorso perché l’autista era costretto, più volte, a fermarsi per i malesseri dei passeggeri. Avere dei bambini al seguito inoltre, rallentava tutto: proprio per questo la spedizione comprendeva più persone perché a turno qualcuno badava ai bambini mentre altri erano occupati a fare le compere.

Per quanto ancora bambina, ricordo che concordare il prezzo con il negoziante era una vera macchietta. C’era un gioco consapevole da parte di entrambi, venditore e cliente e tutto si svolgeva secondo la teoria: il negoziante esigeva un prezzo alto che, ovviamente, veniva ridotto di più della metà con la contrattazione.

La mamma, tenendomi per mano, frenava la mia voglia di fermarmi per ogni piccola cosa che attirava la mia attenzione. Vivevamo la città come una realtà dove era possibile trovare tutto, sbrigare qualche pratica burocratica, fare una visita specialistica, comprare qualcosa di bello che talvolta si vedeva sulle riviste. A un tratto inchiodai i piedi e costrinsi tutti a fermarsi: avevo visto un piccolo pianoforte esposto nella vetrina di un negozio e lo volevo a tutti i costi. Incominciai a piangere, non volevo sentire ragioni; papà si arrabbiò e, alzando la voce, mi costrinse a proseguire.

Due strade più in là mamma e papà incontrarono dei conoscenti, e dovendoli salutare, la mamma lasciò momentaneamente la mia mano: incurante delle distanze, dei pericoli, con la beata incoscienza che contraddistingue i bambini, mi allontanai in cerca del pianoforte.

Camminavo senza capire dove andavo, quando fortunatamente incontrai due carabinieri, che vedendomi da sola si fermarono, mi chiesero il nome e dove stessi andando. Cercai di rispondere come potevo; loro capirono, mi presero per braccio e mentre si guardavano attorno, videro arrivare i miei genitori preoccupatissimi, che spiegarono l’accaduto. Il mio obiettivo era stato raggiunto, il pianoforte era mio e lo volli portare in mano tutto il tempo.

Nel tempo quel piccolo strumento non perse mai la sua importanza, ci giocai per anni, prima strimpellando per il gusto di far rumore, poi, facendo qualche accordo ma non divenne lo strumento del mio lavoro né della mia cultura personale.

La vita, a volte, ci dà dei segni che passano inosservati fino a quando si squarcia il velo del tempo e ne capiamo il significato. Che tiranno il tempo! E quanto siamo inermi di fronte a lui! Gli deleghiamo la realizzazione di tutti i nostri sogni e restiamo ad aspettare, ma non si conquista niente ad aspettare: bisogna riconoscere l’occasione giusta e lottare perché diventi un risultato.”

Partiti i protagonisti della nuova famiglia che si era costituita dinanzi a noi, la normalità ci riconsegnò ognuno alla propria vita.

Il futuro tuo e di Dolly ora era al centro dei nostri pensieri. La polvere grigia del tempo stava imbiancando i nostri capelli e non sprecavamo più tempo a cercare soluzioni. Volevamo far recuperare a Dolly il tempo culturalmente perduto mentre tu continuavi un percorso già intrapreso brillantemente.

Occorreva che Dolly integrasse la scuola con lezioni private per non rischiare bocciature, decidemmo così per una soluzione mista, la mattina in autobus sarebbe andata a scuola, in città, nel pomeriggio un giovane professore di nome Maurizio, amico di tuo padre, sarebbe venuto a casa nostra per darle lezioni private. Ci dispiaceva separarvi ma la soluzione ideale per te era di rimanere fino al venerdì in Istituto e rientrare per il fine settimana.

Così la famiglia si adattò a una normalità diversa, in base ai suoi componenti e alle loro necessità.

Io e Anna eravamo più sagge, per non dire più vecchie e, come sempre, mi appoggiavo alla forza di mia sorella per andare avanti senza cedere dinanzi alle malattie che cominciavano a diventare presenze nella nostra vita.

Talvolta mi soffermavo a considerare, sempre con stupore, quanta vita in termini di emozioni, gioie, dolori raccoglie una famiglia, una singola parola che racchiude una pluralità di persone, con i loro intenti, le loro diverse esperienze, gli allontanamenti e i ritorni. Questo avevo voluto dare ad Anna, a Dolly, a te Lisa, ma c’ero riuscita?

Questo grosso lascito che un genitore fa non è frutto di cultura, non si impara a scuola ma si comprende vivendo in questo nido, sentendone la mancanza quando ci si allontana, sentendo il cuore battere forte quando si ritorna, amandola in ogni angolo, in ogni pietra.

Avevamo raggiunto finalmente la serenità: un giorno dopo l’altro il tempo trascorreva, con chiari e scuri, ma la vita ci aveva insegnato ad apprezzarla sempre. Io e Anna avevamo ripreso a ricamare insieme ricreando tra di noi quella complicità, prettamente femminile, che tanti anni prima ci aveva viste complici di tanti discorsi, spettatrici di tanti giochi di sguardi, di consapevoli bugie raccontate per nascondere piccoli e innocenti amori.

I tempi si accorciavano, Filippo accompagnava spesso Françoise nei suoi spostamenti, forse per respirare ancora l’aria del palcoscenico, per sentire il rumore di quegli applausi che avevano colorato tanta parte della sua vita. Passarono alcuni mesi, ricevemmo una telefonata certo non una delle solite. Mio nipote e sua moglie ci annunciarono che fra alcuni mesi avremmo accolto nella nostra grande famiglia un piccolo Piovani.

Filippo per il momento aveva riposto in un cassetto il suo futuro dedicandosi alla composizione e all’insegnamento, che gli consentivano di stare più vicino a Françoise e di vivere con lei quei momenti di attesa.

Quando rincasavano, Filippo lo si vedeva percorrere una famosa via del centro, entrare in un grande portone dove una targa in ottone affissa alla porta riportava una scritta: ‘Il Piccolo Pianoforte – Scuola di Musica dei Maestri Filippo e Françoise Piovani’.

Quel nuovo progetto di vita di mio nipote Filippo significava che aveva accettato il suo limite, avrebbe usato tutta la sua esperienza e il suo amore per la musica nel dare, a chi avesse talento, la possibilità di raggiungere grandi risultati.

Filippo non si era arreso alla sorte; rividi in lui la mia voglia di lottare e non arrendermi mai, comunque. Ero grata anche a Françoise per essere riuscita con la sua presenza a trasformare la rinuncia in uno sforzo teso a investire le conoscenze e l’esperienza in qualcosa di costruttivo e gratificante. L’importante era che la malattia non bandisse la musica dalla vita di Filippo e potesse continuare a vivere.

Lo studio era ricavato in un enorme salone, un gioiello di architettura. Il soffitto era a cassettoni, i pavimenti ricoperti da tappeti di gran pregio, e due meravigliosi pianoforti a coda contrapposti pronti per chissà quanti allegretti avrebbero visto suonare. Non mancava in una nicchia illuminata, il piccolo pianoforte bianco e verde, omaggio di Emma agli sposi che da oggetto inanimato avrebbe ora rappresentato il simbolo di una scuola, dove tanti giovani avrebbero appreso a usare i loro sentimenti per comporre e trasformare in melodia le loro emozioni.

Quello, certamente, prima del futuro nipotino, era il regalo più bello con cui la nuova coppia voleva ricambiare l’affetto di Emma, la madre che non aveva mai smesso di credere nel talento del figlio. Ringraziai i miei due ragazzi e tornammo a casa in tempo per consumare un pasto leggero. A ripensarci, la vita mia e delle mie sorelle, la vostra, che ormai grandi vi sareste costruita, mi sembrava un’opera teatrale, dove ogni sera, si consumavano amori e fughe, unioni e tradimenti, dove a tutti era data la possibilità di immedesimarsi in vite mai avute.

Non tingevo i capelli, farlo mi sembrava remare contro il tempo, una forzatura; li tiravo indietro, sulla nuca li raccoglievo in una crocchia dandomi un’aria distinta, anche se di persona più anziana ma tenuta con grande cura. Il mio vestito più bello era quello delle occasioni, in seta con intarsi di pizzo sul collo e sulle maniche; sul collo si adagiava uno splendido cammeo, appartenuto a mia suocera.

Con quel vestito, assieme a Emma e Françoise, anch’esse eleganti e distinte, andammo ad ascoltare l’ultimo concerto di Filippo a teatro.

Ci sedemmo in prima fila. Ogni pezzo fu accompagnato da ovazioni.

Eravamo in piedi quando il Direttore Artistico, facendo gli auguri, ci annunciò l’ultimo pezzo che sarebbe stato eseguito a quattro mani da Francoise e Filippo.

L’ultima nota fu sottolineata da una serie di applausi e alla fine Filippo disse:

«Questa musica è stata composta da me, la dedico a mia madre qui tra di noi e a tutte le madri che la vita di tutti i giorni rende grandi. Prima ho suonato con la donna che porta in grembo mio figlio, mia moglie. Queste due donne mi hanno insegnato che la forza delle donne è una risorsa per l’uomo, meno temprato per la sofferenza.

Noi facciamo delle scelte ma la vita, a volte, ci costringe a fare delle deviazioni; l’importante è non perdere mai la strada maestra. La musica è la mia vita e lo sapete, tutto il mio passato lo dice.

Purtroppo un imprevisto di salute, dopo tante speranze e cure, mi priva della possibilità di poter ancora vivere serate come questa. Dopo la disperazione iniziale ho reagito perché sapevo e volevo una cosa sola: non abbandonare questo mondo, sentire ancora dentro di me questo fiume di emozioni e poterle comunicare ad altri.

Questo è il motivo per cui da oggi mi dedicherò alla composizione e alla preparazione di giovani musicisti. Spero che la mia scuola possa formare tanti talenti, di mettere al loro servizio tutte le mie esperienze e di essere seduto in prima fila ad applaudirli. Non soffocate mai quello che sentite nel vostro cuore, in qualunque modo lasciatelo a qualcuno che possa testimoniarlo, regalate bei momenti perché poi si trasformeranno in bei ricordi.

Vi ringrazio per i vostri consensi e vi saluto senza tristezza, perché so che io non perderò voi e voi non perderete me. Mi troverete in tutti i successi di mia moglie e, in futuro, nelle arie che suoneranno dei giovani artisti amanti della musica quanto me».

Quando Emma raccontava e ripeteva questa felice conclusione, pensavo che tutte e tre noi sorelle avevamo dovuto affrontare grandi problemi, ma eravamo riuscite a non farci distruggere dalla disperazione. Il nostro coraggio, rafforzato dalla nostra unione, ci aveva permesso di aggirare gli ostacoli e raggiungere obiettivi che, strada facendo, avevano impegnato la nostra forza dandoci conferme e gioie. Io e Anna rimanemmo ancora incantate, come due bambine, quando guardammo le foto del tempo indietro. Tu, Lisa, le guardasti con noi da giovane donna, ancora dinanzi a una strada da percorrere.

Mancava Dolly, un bel giorno partita per una decisione che mi fece conoscere un altro aspetto del suo carattere. Risento le sue parole mentre tiene in mano una lettera: “Mamma, zia, ho in mano una lettera attraverso la quale mio padre mi parla.

Egli fa parte di un passato che ci ha arrecato dolore, preoccupazioni, rabbia ma tutto questo ci ha tenuto unite, siamo cresciute insieme amandoci, rispettandoci. Io, per prima, da piccola e fino a poco tempo fa, l’ho odiato. Mi sono detta tante volte che se l’avessi incontrato, l’avrei offeso, accusato di irresponsabilità e leggerezza, di non avermi cercata, sorretta nei momenti difficili e di aver lasciata mia madre sola, negandole il suo aiuto. Non avevo fatto i conti con il mio cuore.

Il cuore e la ragione non sempre si comprendono, spesso si oppongono ed è quello il momento della nostra scelta. Ne avevo già sbagliato una e quell’errore mi stava portando a usare la vita in maniera avventata, non rispettandola. Ma in ogni evento, se osserviamo con attenzione, c’è sempre una positività: nel mio caso avevo capito che se siamo stati destinatari di un dono, anche noi possiamo regalarlo agli altri.

Sto parlando della capacità di saper perdonare. Mio padre è solo e malato, ha un tumore al polmone, regalatogli dalle sigarette e dai dispiaceri, accompagnati da tutti i silenzi che non è mai stato capace di rompere. Tu ed io mamma, abbiamo avuto zia Mariù e il nostro dolore è stato anche il suo, ci siamo aggrappate alla sua mano, forte e generosa e non ci siamo perse.

Il suo silenzio, la sua debolezza, in tutti questi anni, ci hanno offeso, non ci siamo sentiti una famiglia perché il suo posto era vuoto e non era sostituibile, ma anche lui ha vissuto una sua condanna e la peggiore: il rimorso, per tutto ciò che avrebbe potuto fare e non ha fatto. Io, mamma, non posso perdonarlo per te, ma per quanto mi riguarda, sì non voglio che muoia solo e dimenticato, perché io so cosa significa sentirsi soli. Il perdono non è, come credono in tanti, la sconfitta dell’orgoglio ma la vittoria della maturità».

Ecco perché avevo tanto lottato, sofferto con e per loro: per vedere mia nipote diventare una donna matura e responsabile. Ora poteva camminare da sola perché ne aveva la forza.

E Anna? Cosa avrebbe detto? La sua risposta: per tutti sarebbe stata un silenzio, per me e sua figlia che la comprendevamo, avrebbe concluso la stagione delle domande, dei dubbi e delle supposizioni.

Si prese tempo, e noi l’aspettammo. Le sue parole sarebbero state definitive, per sua figlia sarebbero state un testamento, per me una pagina di un libro già scritto e con un inchiostro indelebile.

Non era facile spiegare una vita in poche parole e in quel momento sentiva il peso della sua diversità. Mi sedetti accanto a lei abbracciandola, un gesto che si era ripetuto tante volte nei momenti di difficoltà e serviva a unire le nostre forze per affrontarli insieme. Lei capì e tirò fuori dalla tasca del grembiule un foglio scritto con le sue mani, per come poteva, per quel po’ che da bambina le avevano insegnato quando si sedeva vicino alle sorelle per vederle fare i compiti di scuola. Incominciai a leggerle.

Mi sorpresi delle tante parole imparate da Anna. Le lessi a voce alta, mettendomi di fronte a Lei, perché potesse percepire i segni labiali:

“Forse avrei dovuto affrontare questo discorso molto tempo prima, voi ve lo aspettavate, ma tu Dolly eri piccola per capire e tu Mariù eri ancora piena di rabbia verso Giovanni. Ho sofferto molto e questa sofferenza, ammantata in un doppio silenzio, quello della parola e quello del cuore, mi ha dato modo di riflettere tanto.

Quando tutto iniziò ero una ragazza con un problema, ma non mi sentivo diversa; come tutte le ragazze a quell’età, dalla vita mi aspettavo il sogno. Non volevo che quella limitazione finisse per negarmi anche l’amore, l’appartenere a qualcuno, personificare quell’amore in un figlio.

Forse non avevo scelto la persona giusta, ma questo lo seppi dopo. Giovanni mi guardava come una persona normale, mi usava piccole attenzioni che mi facevano sentire amata. Quel pomeriggio in cui mi adagiai su uno strato di foglie e mi alzai donna, mi sentii finalmente normale, perché ero di qualcuno.

Tu, Dolly, non eri in conto ma, si sa, spesso i conti non tornano, così un giorno mi accorsi che quel pomeriggio avevamo creato qualcosa di immensamente grande e ti amai da subito. Solo dopo, cominciai a capire quante difficoltà quell’attesa comportava. La zia e tu, Mariù, siete state il mio appoggio perenne, il mio filtro con il mondo senza il quale non avrei potuto affrontare la maternità, la crescita di mia figlia, le domande di tutti che mi avrebbero messo in crisi.

Tante volte, in tante situazioni, mi sono data delle colpe e mi sono pentita di non aver chiamato al mio fianco Giovanni, mi sono sentita ingrata nei confronti di zia Tiziana, che ho investito di responsabilità in una stagione della sua vita in cui aveva bisogno di serenità e amore. Poi prevaleva anche il mio orgoglio, il non voler porre Giovanni dinanzi alla necessità di sposarmi per la presenza di un figlio e rimandavo a dopo ogni decisione.

Intanto gli anni passavano, tu Dolly crescevi e, come tante volte era successo a me, ti sentivi privata di un amore importante ma soprattutto che gli altri avevano e tu no. L’unica volta in cui ho veramente vissuto la disperazione, l’abbandono e il rimorso è stato il giorno in cui tu sei andata via da tutto e da tutti.

Tu, Dolly, non potevi, però, sapere che dal cuore di una madre non si può scappare, il suo pensiero ti segue ovunque e la speranza di ritrovarti non l’abbandona mai. Seguirono notti più buie della notte stessa, giorni di un inverno interminabile. Sciacquavo i panni con l’acqua ghiacciata e speravo, cambiando l’acqua, di poter scivolare attraverso il buco della vasca e andare a sfociare in un piccolo ruscello di montagna dove, rinnovata, saziare la sete di qualcuno. Il mio silenzio gridava solo agli occhi di Dio, al quale ho chiesto tante volte perdono, dopo il tuo ritorno. Mariù, ti ho fatto vivere tante ansie e preoccupazioni ma tu non sei soltanto mia sorella, sei stata in tante occasioni una madre per me e Dolly. L’affetto che ci unisce è forte come una quercia ed è legato ai più bei ricordi della nostra vita.

Adesso, Dolly, c’è una decisione soltanto tua, anche io ho perdonato tuo padre, nonostante la sua mancanza di coraggio ci abbia condannate a non avere una famiglia. Fai quello che il cuore ti suggerisce e non sbaglierai. Non devi dividerti tra nessuno, sei mia quanto sua, vivi con lui il poco tempo che gli rimane.

Io sono fragile come tutte le persone anziane, questo non mi consente di venire con te, ma dì a tuo padre che l’odio non mi appartiene e quello che provavo per lui era amore, non una fiammata dovuta all’incoscienza di quegli anni.”

Ero contenta di ciò che leggevano i miei occhi: una sorella finalmente in pace con tutti e una nipote libera di decidere della sua vita.

Dolly, forte del consenso di sua madre, affrontò la sfida con tutti, fu riconosciuta da Giovanni e rimase accanto a lui fino alla fine. Una mattina, arrivò una lettera che cambiò i colori della giornata. Mia nipote chiamava accanto a sé sua madre per dire addio a un padre da poco ritrovato.

Facevo da tramite, trasferivo ad Anna, lentamente, le parole scritte da Dolly anche con le lacrime. Anna soppesava i miei gesti. Non so cosa prevalse in lei, se la voglia di essere insieme a sua figlia o il desiderio di dare pace a Giovanni, non consentire alla morte di privarla di quell’ultimo sguardo che avrebbe ricucito tanti strappi e tanto dolore.

Per esperienza, talvolta per evitare un dolore se ne genera uno più grande; così fui contenta quando mia sorella abbassò la testa per dire che sarebbe andata. Avrebbe affrontato, in quel giorno, tutto ciò che aveva evitato in tutti quegli anni: la curiosità della gente, gli sguardi di coloro che da anni cercavano risposte, i commenti. Ma Dolly era con lei, la sua presenza era ampiamente giustificata, le avrebbe dato serenità poter tenere la mano di Giovanni, quella che a lei era stata negata, a torto o a ragione, ormai non aveva più importanza.

La morte separa, allontana, lascia freddo e sgomento, ma la presenza di mia sorella e di mia nipote poteva evitare tutto questo, poteva far sì che quell’uomo vivesse da padre e da marito l’ultimo suo istante di vita.

Così, Anna fu al suo posto nell’ultimo viaggio di quell’unico suo amore e, guardandole, raccolte e unite, mano nella mano, io per la prima volta li considerai una famiglia».

Guardai mia madre come se la vedessi per la prima volta. Ero orgogliosa di lei e sentii il peso che si portava dentro da anni sciogliersi come neve al sole.

Non avrei voluto più lasciarla, l’amore per lei si era sommato alla tenerezza, all’ammirazione, alla complicità tra donne e tutto questo mi faceva desiderare di stare sempre lì a rendere un momento lungo una vita.

Ma c’è una realtà che, finché ne facciamo parte, ci pone davanti ai nostri doveri anche quando essi costano delle rinunce.

Allora mi abbassai, nel gesto che più amavo fare, mi raccolsi attorno alle sue ginocchia e, tenendole le mani, le dissi: «Mamma, grazie per avermi raccontato questa bella e lunga storia della tua esistenza e che mi farà riflettere tanto; grazie per avermi fatto capire che l’amore può redimere senza opprimere.»

«Ti ho raccontato la mia storia – continuò mamma –per farti capire che non ci sono storie più o meno importanti, la vita di ognuno di noi scorre per sentieri diversi che noi dobbiamo percorrere. È il modo in cui li percorriamo a renderla diversa.

Chi non ha provato, almeno una volta, nella vita la voglia di chiudere i conti con il proprio passato? Per riuscirci bisogna distruggere tutto fino all’ultimo istante, quello che ti ha reso impossibile reggere il peso degli altri. Poi, ti siedi e guardi il sole dinanzi a te, come non l’hai mai fatto, senti il vento accarezzarti e nel suo fruscio senti una voce che ti dice: “Riprovaci”. Se il cuore ti segue, allora tutto ricomincia.

Vedi Lisa, la nostra esistenza non è là dove siamo nati, ma in tutti i posti in cui siamo stati, in cui abbiamo amato, in cui abbiamo perso, in cui abbiamo conosciuto il meglio e il peggio di noi stessi, laddove abbiamo costruito il sogno di ciascuno di noi: per qualcuno sarà stata una casa, per altri un figlio, per altri ancora un lavoro.

Una casa ha un inizio e una fine, un lavoro anche ma un figlio no. Un figlio è un progetto, con lui dividi la vita dall’istante in cui gliela dai a quello in cui te ne vai. C’è un tempo in cui tu decidi per lui, un altro in cui lo aiuti a sopportare il peso delle sue decisioni sbagliate, un altro in cui lo prepari a non vederti più accanto a lui e a capire che l’assenza è solo fisica, dovrà sentirti vicina perché ci sarai nel suo cuore e nei suoi pensieri.

Io non so se sono stata una brava figlia, sorella, zia, moglie, madre, ma so che ho provato a esserlo.

Come vedi a una donna non si chiede poco, perché tutti questi ruoli sommati sono la sua vita. La vita della donna è segnata dalla fatica e dal dolore fisico. L’uomo è la forza, la solidità, la donna è sangue e carne, è cuore, anima, in una sola parola è vita.

Queste parole consegnale ai tuoi figli, insegna loro ad amare l’esistenza, a vivere intensamente tutte le belle sensazioni, a cercare il valore intrinseco di ogni cosa e a non disperarsi se non troveranno le risposte alle loro domande perché essa risponde sempre e con semplicità.

Bisogna saper amare anche le pause, l’apparente inerzia del proprio percorso perché esse non significano il nulla, la perdita di tutto, ma chiamare a raccolta tutte le forze per ripartire più forti di prima. I segreti che rendono importante l’individuo sono piccoli ma si devono custodire gelosamente come pillole di saggezza e non farli morire con noi.

Ogni età ha il suo linguaggio, più esso è semplice più arriva al cuore e ogni momento ha un suo perché, non sempre si riesce a spiegarlo. Nessuno è esente dagli errori e affrontarli ci rende forti. Quando meno ce l’aspettiamo succede la magia, come dicevo a te e Dolly quando eravate piccole.

Il valore di ciascuno di noi si misura dalla capacità di affrontare l’imprevisto, di non rinunciare ma soprattutto di sapere accettare le proprie debolezze, sono la parte più vulnerabile di noi ma anche la più bella».

Avevo ritrovato mia madre. Quel senso di appartenenza a lei che da giovane mi faceva sentire imprigionata, adesso mi rendeva fiera di avere vissuto nel suo grembo, di avere assorbito da lei la possibilità di esistere. Mi restava tanto di lei, rivedevo i momenti, ormai eterni, in cui mi accucciavo contro il suo seno per sentire il suo odore. Mi risentivo imprigionata tra le sue gambe per non farmi scappare, quando mi pettinava i lunghi capelli per riordinarli in due trecce o li avvolgeva, ciocca dopo ciocca, tra le sue dita e li lasciava morbidamente cadere arrotolati, come ‘candele’.

Quelle candele avrebbero sempre illuminato la mia vita, non avrei avuto rimorsi, ma rimpianti si.

Avrei rimpianto, il cerchio delle sue braccia che mi impediva di cadere, quando di notte rimetteva la mia mano sotto le lenzuola e mi poggiava le labbra, mai stanche, sulla fronte; quando asciugava le mie lacrime senza conoscerne il motivo.

Questi e altri sentimenti, che nutrivo per mia madre, erano i segreti custoditi nel tempo, ma non avevo voglia di tenerli solo per me, era tempo di confessarli, che fosse lei ad ascoltarmi, perché la storia della nostra famiglia non si fermava a Emma, Anna e Mariù. C’eravamo io, Dolly, Filippo e i nostri bambini, ormai grandi, per continuare a custodire i segreti incantati delle loro mamme e conoscere la loro magia.

Caterina Guttadauro La Brasca

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Andrea Giostra

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