Che sia in senso figurato o meno l’idea dell’abisso turba e sconvolge sempre; che sia un ambito personale o collettivo poca sposta se ci tocca direttamente non si può far altro che allungare un passo ed entrarci dentro.
Davide Enia in scena al Teatro Biondo, Sala Grande, fino al 25 novembre, non esclude nessuno dei presenti al suo spettacolo intitolato appunto “L’abisso“: un baratro artistico e personale che oscilla tra la dimensione familiare e il dramma degli sbarchi a Lampedusa.
Il gioco di luci ricreato in sala, dopo il buio iniziale, avvisa subito: il fondo verde acqua della cupola del tetto del Biondo, illuminato, anticipa quel mare che abbraccerà tutti, “quella misteriosa bellezza dell’immenso“.
Si siede sulla sua seggiola Enia, la scenografia è scarna, bastano le parole e i movimenti del corpo per agevolare l’immaginazione, e la musica dal vivo di Giulio Barocchieri, per raccontare quanto raccolto in mesi di ascolto e condivisione.
“Ogni vita è sacra” questo è certo: il racconto di Davide Enia, emozionante e fluido, non rischia di cadere nel banale o nel “già sentito” perché offre un punto di osservazione inedito: fa parlare, tra gli altri, uno dei soccorritori che spiega che “ogni recupero è diverso” e che quelli che si salvano sono “persone che si portano dentro un intero camposanto“.
Tecniche, riflessioni, conteggi ingiusti per “uomini pescati come pesci“: esperienza che anche ad uno come Davide Enia, che le parole le gestisce bene, possono generare smarrimento, soprattutto se sommata ad un trauma familiare. Ed ecco che torna, in soccorso, il conforto della sua Sicilia con le arance e “l’odore della mentuzza“.
Ne “L’abisso” lo scrittore-attore racconta anche il dramma della malattia di un familiare: se all’inizio può sembrare poco pertinente accostare le due esperienze alla fine, invece, risulta un esercizio narrativo efficace e catartico anche per lo spettatore.
Il ritmo della narrazione varia, infine, note graffianti e “cunto” sottolineano le tappe di un’odissea privata e collettiva che Enia, acutamente, chiude con un ultimo frammento mitologico ricordando, a quanti erroneamente lo dimenticano, che anche noi europei “siamo figli di una traversata in mare“. Il pubblico della prima applaude emozionato.