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“Trattativa”, ecco la sentenza: condannato lo Stato, “Mori e De Donno negoziarono con la mafia”

venerdì 20 Aprile 2018
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La Corte d’Assise di Palermo, che ha celebrato il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, ha assolto dall’accusa di falsa testimonianza l’ex ministro democristiano Nicola Mancino. Prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca. Condannati tutti gli altri imputati.

Gli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni sono stati condannati a 12 anni per minaccia a corpo politico dello Stato. A 12 anni, per lo stesso

Nicola Mancino
Nicola Mancino

reato, è stato condannato l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri.  A 28 anni, sempre per minaccia a corpo politico dello Stato, è stato condannato il capo mafia Leoluca Bagarella. Per lo stesso reato dovrà scontare 12 anni il boss Antonino Cinà.
L’ex ufficiale del Ros Giuseppe De Donno, per le stesse imputazioni, ha avuto 8 anni. Massimo Ciancimino, accusato in concorso in associazione mafiosa e calunnia dell’ex capo della polizia De Gennaro, ha avuto 8 anni.

“Sono sollevato. È finita la mia sofferenza anch +e se sono sempre stato convinto che a Palermo ci fosse un giudice. La sentenza è la conferma che sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo che tale è stato ed è tuttora”. Lo ha detto l’ex ministro di Nicola Mancino dopo l’assoluzione.

Il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia comincia, davanti alla corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto, il 27 maggio del 2013. La posizione del boss Bernardo Provenzano, giudicato incapace di partecipare lucidamente alle udienze, era stata stralciata. Il reato è stato poi dichiarato estinto per la morte del “padrino”.

A rispondere di minaccia a Corpo politico dello Stato si ritrovano gli ex vertici del Ros dell’Arma Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, boss come Totò Riina, Antonino Cinà e Leoluca Bagarella, l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri e il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca. Per tutti l’accusa è minaccia a Corpo politico dello Stato.

ciancimino
Massimo Ciancimino

Alla sbarra anche Massimo Ciancimino, testimone chiave e al tempo stesso imputato, chiamato a rispondere di concorso in associazione mafiosa e calunnia all’ex capo della polizia Gianni de Gennaro e l’ex ministro Nicola Mancino accusato di falsa testimonianza. Calogero Mannino, ex ministro Dc, con gli altri rinviato a giudizio, sceglie l’abbreviato.

Il processo a suo carico va più spedito a novembre del 2015 viene assolto. L’appello è in corso. Davanti alla corte si costituiscono parte civile il Centro studi Pio La Torre, l’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro, la presidenza del Consiglio dei ministri, la presidenza della Regione siciliana, il Comune di Palermo, l’associazione Libera e l’associazione vittime della strage dei Georgofili. Al centro, almeno all’inizio del processo che nel tempo si è riempito di capitoli nuovi, la presunta trattativa che pezzi dello Stato, attraverso i carabinieri, avrebbero avviato con Cosa nostra negli anni delle stragi.nicola mancino

Un dialogo fatto di concessioni carcerarie e impunità in cambio della fine del sangue e degli attentati che tra il 92 e il 93 avevano messo in ginocchio il Paese. La pubblica accusa intanto perde un pezzo importante, il pm Antonio Ingroia che lascia la toga dopo un infelice tentativo di discesa in politica. A istruire il dibattimento sono Nino Di Matteo, divenuto simbolo del pool, Roberto Tartaglia, il più giovane dei pm, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene.

Quattro anni e 8 mesi di dibattimento, circa 220 udienze, centinaia di esami testimoniali, audizioni di politici eccellenti tra cui l’ex capo dello Stato

De Donno e Mori, trattativa,
De Donno e Mori in una foto del 1997

Giorgio Napolitano, dichiarazioni spontanee, schermaglie tra le parti, rivelazioni di piani di attentati e minacce ai danni di Di Matteo: la vita di quello che è stato definito il processo del secolo è lunga, complessa e densa di polemiche.

C’è chi lo definisce un maldestro tentativo di riscrivere la storia del Paese, chi insorge per la qualificazione giuridica del reato contestato agli imputati. Critiche e invettive che culminano nello scontro tra l’accusa e il Colle dopo le intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino, finito davanti alla Consulta. Alla fine i giudici danno ragione al Capo dello Stato e ordinano la distruzione dei nastri irrilevanti per l’inchiesta.

La Procura completa la requisitoria a gennaio e chiede le pene. Nel frattempo muore un altro imputato eccellente: Totò Riina. Il conto più salato l’accusa lo presenta a Mario Mori, sempre assolto nei processi a cui finora era stato sottoposto: 15 anni di carcere. Avrebbe scelto la via del dialogo con Cosa nostra. Per i colleghi del Ros Antonio Subranni e Giuseppe De Donno sono stati chiesti 12 anni ciascuno. Stessa pena invocata per Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia ritenuto referente politico dei boss dopo l’arresto del vecchio interlocutore dei carabinieri, l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino.

Marcello Dell’Utri

Pesantissima – 6 anni – anche la richiesta di condanna fatta per Nicola Mancino che avrebbe mentito ai giudici del processo in cui Mori era imputato di favoreggiamento alla mafia. Per Leoluca Bagarella, cognato di Riina e al suo fianco nella strategia stragista, sono stati chiesti 16 anni; 12 per Antonino Cinà, medico e fedelissimo del padrino di Corleone.

Brusca, passato tra le fila dei pentiti, si è visto chiedere la prescrizione dalle accuse. A sorpresa la prescrizione è stata invocata anche per Massimo Ciancimino, nel frattempo finito in cella per scontare condanne definitive per riciclaggio e detenzione di esplosivo. Accusato di concorso in associazione mafiosa, il suo contributo all’organizzazione si sarebbe esaurito a gennaio del 1993, quando, secondo i pm, insieme a suo padre Vito e a Bernardo Provenzano avrebbe fatto catturare Riina.

Per la calunnia dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, di cui era accusato per averlo accostato a un fantomatico 007 coinvolto nella trattativa, sono stati invece chiesti 5 anni.

Va ricordato che uno degli storici rappresentanti del processo sulla “Trattativa”, il pm Nino Di Matteo da mesi trasferito alla Dna, è stato applicato all’udienza in cui la Corte d’Assise di Palermo ha emesso il verdetto. Il suo passaggio alla Direzione Nazionale imponeva, infatti, un’applicazione al dibattimento per seguirne la fase finale.

Nei mesi scorsi un provvedimento analogo gli aveva consentito di fare la requisitoria nonostante il passaggio ad altro ufficio. Stessa decisione è stata presa per Francesco Del Bene, anche lui pm del pool trasferito alla Dna.

 

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