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Un incontro su Aldo Moro e Paolo VI a 40 anni dalla morte: l’impegno dei cattolici in politica

lunedì 26 Novembre 2018

Gero Grassi, ex Dc, ex Margherita, ex Pd, è in movimento da parecchio tempo. Oltre 600 le iniziative pubbliche nelle quali espone le “verità processuali” emerse dai lavori in seno all’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, istituita nel 2014 e presieduta da Giuseppe Fioroni. I lavori terminarono nel 2017 e la relazione venne votata all’unanimità.

«Chi tocca l’affaire Moro rimane scottato» ha ricordato Grassi. «Infatti – aggiunge – non sono stato ricandidato dal mio partito». Non una lamentela tra colleghi e correnti, ma la convinzione che quel mistero italiano non lascia mai nulla di immutato in chi e in ciò che ne viene a contatto.

Un incontro si è svolto a Cefalù, inserito in una due-giorni, il 24 e il 25 novembre, a 40 anni di distanza dalla morte di Moro e Papa Paolo VI, ed è stato voluto dalla Diocesi di Cefalù, presente con il vescovo, Giuseppe Marciante, con don Giuseppe Amato, alla guida del servizio diocesano per la Pastorale sociale e del lavoro e con Giuseppe La Tona, presidente dell’Azione cattolica diocesana. Presenti anche i sindaci di Pollina e di San Mauro Castelverde e il vicesindaco di Cefalù.

Al centro due figure fraternamente legate. Paolo VI morì qualche mese più tardi di crepacuore, per la fine del politico cattolico. «Paolo VI – ricorda il vescovo Marciante – voleva salvare a tutti i costi Aldo Moro offrendo anche la sua vita e per il suo riscatto aveva raccolto 10 miliardi di lire tra gli ebrei che aveva salvato dalla furia nazista». Fu costretto a rivolgersi agli ebrei «dal momento che la banca vaticana, lo Ior di Marcinkus, glieli aveva rifiutati» sottolinea Grassi.

«Non mi meraviglierebbe un processo di beatificazione di Moro – aggiunge il vescovo Marciante – che visse la sua esperienza con forte spirito cristiano». Lo statista «fornisce, infatti, una lezione preziosa ai cattolici – fa eco don Amato – e riguarda l’impegno in politica. Un impegno “sotto” e non “sopra” le parti, perché chi serve, sta sotto».

Le rivelazioni della commissione, dietro quel mistero italiano, hanno ormai fatto il giro del mondo eppure ascoltarle dalla viva voce di Grassi, al fianco di Moro fin da giovane, fa ancora effetto. Grassi, in realtà, riesce a tenere incollati alla sedia quanti cercano stralci di verità calpestata. «Una commissione d’inchiesta ha poteri uguali alla magistratura e quella messa insieme è l’ultima verità ufficiale che ad oggi conosciamo». Sei milioni di pagine di atti processuali frutto di otto processi Moro chiusi, di quattro commissioni sul terrorismo e le stragi, di due commissioni Moro, di una commissione Mitrokhin e di una sulla P2.

Sbagliarono in tanti, depistarono in molti. «L’unico, in quell’Italia, che aveva compreso era stato Sciascia» dice Grassi. L’affaire Moro dello scrittore siciliano ha tracciato una via che solo a distanza di decenni ha visto le sue “intuizioni” trovare conforto tra le tante ombre affastellate. Dietro l’uccisione di Moro ci stanno sì le Br, ma ancor prima e più la Cia, i servizi segreti italiani, i membri deviati delle Forze armate, lo stesso Kgb. E poi la mafia con la banda della Magliana e la ‘ndrangheta. «A sparare a Moro – aggiunge Grassi – fu un uomo della ‘ndrangheta, Giustino De Vuono, che lasciò la sua “firma”: 12 colpi attorno al cuore». Grassi riannoda le fila della storia: ricorda Riina su Dalla Chiesa «che fu ucciso dalla mafia non per cose di mafia, ma per sottrargli le carte di Moro»; ricorda che fu uccisa la moglie che aveva in tasca le chiavi della cassaforte dove stavano quelle carte; il memoriale dei brigatisti uscito fuori ufficialmente nel ’90 nelle mani di Cossiga già qualche anno prima; lo stabile utilizzato dalle Br in via Massimi era un palazzo dello Ior…

Una girandola di date, di nomi, di coincidenze, di circostanze. E in mezzo, ancora una volta, un uomo perbene, quel Moro che aveva una stella fissa a guidarne cammino e azione: la persona prima di tutto. Una massima che non andò bene per il fascismo e neppure per la Prima Repubblica, affaccendata a fare da cuscinetto in un mondo spezzato in due dalla Guerra fredda. I principali passaggi politici di Moro: scuola media obbligatoria, maggiori opportunità per tutti, nazionalizzazione dell’energia elettrica, democrazia compiuta con il Pci al governo. Lì, Moro toccò i nervi scoperti e i comunisti italiani in coalizione andavano di traverso sia agli americani che ai sovietici: ecco le vere “convergenze parallele”. Kissinger lo avvertì pure.

Insomma, Moro non morì sul colpo, non entrò da vivo nel portabagagli della Renault 4, fu ucciso dal basso verso l’alto: fino alle risultanze dell’inchiesta parlamentare era “vero” l’esatto opposto. E anche parte della stessa magistratura, nel corso degli anni, aveva avallato le versioni di comodo.

«I cafoni pugliesi non capivano granché di quel che diceva Moro durante i suoi comizi. Anche mio nonno me lo confermò, ma – ricorda Grassi – capì, ascoltando Moro, che suo figlio non avrebbe fatto lo scalpellino. E infatti mio padre divenne professore. Moro infondeva speranza».

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