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A 50 anni dal terremoto del Belice, fare tesoro di quella lezione

venerdì 12 Gennaio 2018

La notte del 14 gennaio del 1968, la terra trema in Sicilia. Il sisma si accanisce con particolare virulenza nella Valle del Belìce radendo al suolo anche interi Comuni e la sua furia devastatrice colpisce anche la provincia di Agrigento e di Palermo e lo stesso capoluogo. I morti accertati furono 296, migliaia i feriti.

Sono trascorsi cinquant’anni ma il ricordo di quel tragico evento è ancora presente nella memoria dei siciliani che vissero quella drammatica esperienza, ma è rimasta anche nel cuore delle generazioni successive perché il processo di ricostruzione fu segnato da un’insopportabile lentezza, tanto da durare molti decenni, e molti nacquero e trascorsero la loro giovinezza tra le baracche che per molto tempo furono dimora stabile per migliaia e migliaia di famiglie. Inoltre, ogni anno Comuni, associazioni, meritevolmente, rievocano quell’avvenimento e le storie che lo accompagnarono.

Il day after, dopo quella terribile notte, presentò un quadro drammatico: case, chiese, interi palazzi distrutti, uomini con il volto dipinto dal terrore, donne segnate dalla notte insonne che si aggiravano tra le macerie alla ricerca di qualsiasi cosa, mentre altri cominciavano a fuggire da quei luoghi sempre più simili all’inferno.

Scene di disperazione di tante persone alla ricerca dei propri cari e che, a mani nude, scavavano laddove si levavano lamenti e invocazioni di aiuto.

Una bambina di Gibellina, Eleonora Di Girolamo, detta Cudduredda, fu la vittima simbolo del terremoto del Belice. Estratta ancora viva dalle macerie, cessò di vivere quarantotto ore dopo. La foto del suo corpicino su una bara bianca ed il volto della mamma, straziata dal dolore, commosse l’Italia intera.

A inasprire la crudeltà di quel terribile evento si aggiunse l’inclemenza del tempo con un mese di gennaio freddo come da tempo non accadeva.

E poi le polemiche per i soccorsi che si misero in moto molto lentamente e come si disse “dopo dodici ore la sciagura non era ancora arrivata né una tenda né una pagnotta, né una coperta”.

Vi fu però anche qualcosa di straordinario: la gara di solidarietà cui si assistette tra la gente e l’arrivo da tutta Italia di tantissimi giovani, volontari che autonomamente si recarono nelle zone del disastro autonomamente in gruppi ma anche individualmente a prestare soccorso a quelle popolazioni.

Cretto di Burri

Anche i gruppi giovanili politicamente impegnati, oltre alle associazioni del volontariato, si distinsero nell’azione di soccorso e assistenza, scavando e sgomberando macerie, preparando pasti, quelli della federazione giovanile comunista con il fazzoletto rosso a collo e quelli dell’Azione cattolica con la fascia bianca al braccio, quando ancora le ideologie esprimevano valori forti. Tanti medici accorsero da ogni parte d’Italia e poi i militari, gli alpini, una gara di solidarietà ancora più ampia di quella che si era vista due anni prima in occasione dell’alluvione che aveva colpito la città di Firenze.

Solo dopo alcune settimane iniziò la costruzione delle prime tendopoli, accompagnate dalle proteste nei confronti del governo nazionale che più che a una pronta ricostruzione riteneva più immediata la soluzione di incoraggiare l’emigrazione anche attraverso incentivi.

Le tende saranno sostituite in seguito dalla costruzione delle baracche con la promessa che be presto sarebbe seguita la costruzione delle case, ma, di fatto, la gente vi resterà per più di dieci anni.

Le baraccopoli consentirono, tuttavia il ritorno a un minimo di normalità con il ripristino dei municipi, sistemati in baracche e attorno ai sindaci, si aggregherà un vasto fronte di lotta che vedranno rinomee partiti sindacati associazioni, intellettuali che daranno vita alla “Vertenza del Belice”.

Il sisma apre uno squarcio su una realtà del paese e del Mezzogiorno dimenticata tagliata dal processo di sviluppo e di benessere che l’Italia aveva avuto, un’opinione pubblica quasi stupita a scoprire una realtà segnata ancora dea una grave arretratezza economica e civile dove le case ancora erano costruite con il tufo e non con il cimento armato.

Poggioreale
Poggioreale

La ricostruzione fu un processo lento, segnata da continue proteste, scioperi, manifestazioni, anche per la scelta del governo nazionale di centralizzare la spesa attraverso i ministeri con continue disfunzioni e ritardi burocratici, lentezze procedurali, con un grande spreco di risorse.

Soltanto quando poteri, funzioni e risorse furono decentrati ai Comuni, vi fu una qualche accelerazione. I Comuni, infatti, in quell’occasione seppero far meglio del governo centrale.

Non mancarono, però sprechi, inefficienze e l’interferenza della mafia nella ricostruzione, con l’intento di accaparrarsi il controllo degli appalti, delle forniture e gestendo il turpe racket dell’assegnazione delle baracche e l’imposizione di un pizzo agli assegnatari.

Vi furono però anche fatti positivi come il caso del Comune di Gibellina che diventò punto di riferimento civile e morale, assurgendo a centro d’iniziative qualificate sul terreno artistico e culturale per l’instancabile iniziativa di Ludovico Corrao che mobilitò i più importanti intellettuali italiani.

Furono molti i sindaci che diedero prova di grande di grande capacità e impegno ripristinando un legame di fiducia tra le istituzioni e le popolazioni, superando momenti di sfiducia e rassegnazione.

Ne ricordiamo solo alcuni come, oltre a Corrao a Gibellina, Leonardo Barrile a Montevago, Vito Bellafiore a Santa Ninfa, Vincenzino Culicchia a Partanna.

A distanza di tanti anni da quella tragedia è utile riflettere su quell’avvenimento al fine di assumere sempre più la consapevolezza che la difesa del territorio, la tutela dell’ambiente, sono le migliori armi per difendersi dalle calamità naturali, come la storia del Belice fino all’ultimo terremoto che ha sconvolto l’Italia centrale e che ancora stentiamo a farne tesoro di quella lezione.

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