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Doniamoci parole anche ai tempi del coronavirus

mercoledì 11 Marzo 2020

In una città spettrale, mentre le sue architetture si affacciano mai stanche sul palcoscenico del caos, cala il silenzio. E il correre frenetico delle giornate si arrende ad una nuova dimensione in cui il tempo passa lento, come se le lancette fossero frenate da una calamita invisibile.

E all’improvviso capisci la vita e forse ti ricordi anche della possibilità della morte. Perché diciamoci la verità, a noi umani la morte non piace affatto, anzi la esorcizziamo in tutti i modi, nascondendola a noi stessi.

Eppure all’improvviso giunge da lontano qualcosa a noi sconosciuto, per rammentarci che la distanza in fondo è un concetto di cui abbiamo avuto bisogno per marcare e tracciare diversità geopolitiche, culturali, religiose. Futilità che impiegano la ragione ad innalzare alti i muri dei nostri dogmi. Ma è proprio la distanza che ci è stata imposta ed una riflessione semiologica dei nostri gesti, dello spazio che attraversiamo assieme all’altro.

Un’educazione frettolosa su buone regole che forse avremmo dovuto sempre tenere a mente, quelle prassi che ci permetterebbero di vivere in maniera civile.

Ma civili forse non lo siamo affatto e tutta l’intolleranza maturata nei confronti dell’altro ce la ritroviamo dinanzi come un cerchio che si ripete e che ti ricorda che tutto può accadere, anche a casa tua. Nel tuo splendido paese fatto di arte e buon cibo, di mare, di montagne, di frutti dolcissimi, di poeti e intellettuali. Di distanze emotive tra nord e sud, di un’unità buona solo sulla carta, come quei matrimoni che durano per sempre, ma senza amore.

Ed io che ferma non riesco a stare, quando inizia ad attraversarmi lo “scuieto”, ho un modo tutto mio per iniziare a correre. Il pensiero non può stare ad un metro di distanza da nessuno, anzi in questo momento le parole sono le uniche cose che possiamo donare e donarci. E allora bisogna narrarlo questo tempo fatto di una quotidianità surreale, frammentato in individualismi tutti da interpretare e da altrettanta solidarietà.

E trattenersi in un esercizio di epochè fenomenologica, sospendiamoli i giudizi, proviamo per una volta ad utilizzare il tempo che ci è dato per ragionare.

Una nuova dimensione di precariato sta investendo le nostre giornate, questo virus maldestro si è già impossessato delle nostre certezze, ha riempito le ore, i nostri dialoghi, i media. Un’ossessione che reindirizza la nostra esistenza, il nostro modo di lavorare o di non farlo, di stare con gli altri, di guardare chi passa accanto a noi. Di ascoltarli tossire, di capire in che idioma si esprimono, che cibi comprano per poi divertirci ad etichettare. Ecco questa palla piena di protuberanze, non ci ha ancora insegnato a tacere e a non sistemarci sul solito piedistallo giudicante. E il mondo continua a dividersi tra gli idioti che fanno cose e le persone colte che ne fanno altre.

Ma esiste il buon senso che dovrebbe fugare ogni sentimento di egoistica auto-conservazione. Il buon senso che mi racconta mio padre, quando piccolo piccolo assisteva inerme ai bombardamenti degli anglo-americani. Isolati in campagna, stretta, tutta la famiglia, in un letto troppo piccolo. Insomma un sentire civico che a noi manca, di sfacciato bisogno di farcela, di sopravvivere tutti, di riappropriarsi della normalità.

Questa guerra virale dovrebbe restituirci tutta la bellezza insita nel concetto di libertà, quella che spesso diamo per scontato non annusandone più gli aromi. Per questa ragione, ho sentito la necessità di utilizzare questo spazio che mi è concesso per raccontare queste giornate e farlo con la delicatezza di cui abbiamo bisogno. Di aprirlo ad altri compagni di viaggio che possano unire mondi apparentemente distanti: dalla scuola, ai pub chiusi, agli attori di teatro, ai musicisti, agli imprenditori che agonizzano, ai disoccupati.

Abbiamo bisogno di metterci in ascolto dell’altro di rimanere profondamente umani.

 

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