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Il calo demografico, l’invecchiamento della popolazione e il mercato del lavoro

giovedì 28 Novembre 2019
anziani

(Riceviamo e pubblichiamo una riflessione di Alessandro Verbaro – Fondo Est)

Il calo demografico ed il progressivo invecchiamento della popolazione che interesseranno l’Italia nei prossimi anni, ci porteranno ad avere gravi problemi in termini di contrazione della popolazione attiva ed in termini di offerta di lavoro per le nostre imprese. Occorre essere consapevoli della difficoltà nell’invertire gli attuali trend demografici con effetti nel breve periodo.

Ma se avviassimo comunque oggi una politica significativa in favore della natalità, gli eventuali effetti sarebbero riscontrabili tra non meno di 15-20 anni. Tale fenomeno accompagnato da una massiccia emigrazione verso l’estero – specie degli under 35 –  comporta inevitabilmente la riduzione della forza lavoro e quindi la conseguente difficoltà delle imprese di reperire i lavoratori necessari.

Nel Rapporto Esde, Rapporto annuale sull’occupazione e gli sviluppi sociali in Europa del 2019, si dice che “between today and 2060, the number of people aged over 65 is expected to increase from 30.5 to 51.6 per 100 people of working age (15-64)”. Tale fenomeno colpirà soprattutto l’Italia.

 

Alcuni dati 

Nel 2025 la popolazione in età attiva, oltre che invecchiare, comincerà anche a ridursi, scendendo al 63,2% del totale rispetto all’attuale 64,2% (2018). Intorno al 2045, la popolazione in età attiva scenderebbe ulteriormente dal 63,2% al 54,5%, con un’età media della popolazione salita nel frattempo a 49,6 anni (scenario mediano).

Lo sbilanciamento strutturale in favore delle età anziane si fa quindi consistente, in virtù di una quota di ultrasessantacinquenni pari al 33,5% del totale. La popolazione in età attiva, dopo il raggiungimento del suo livello percentuale minimo nel 2050 (54,1%), recupererà peso fino al 54,8% entro il 2065 nello scenario mediano, con margini di incertezza compresi tra il 52,5 e il 56,7%. Si tratta di veri e propri “limiti demografici” alla crescita e allo sviluppo.

Le sfide 

Oltre che dei problemi demografici, si deve tener conto della cattiva formazione e dello spreco di capitale umano che riducono o rendono difficile l’employability con conseguente perdita di occupazione. Occupazione essenziale per i nostri deboli e indebitati sistemi previdenziali.

I nostri sistemi educativi interessano quasi esclusivamente la prima fase di vita dell’individuo, ma risulta essere burocratica, autoreferenziale e discontinua. In tal senso viene sprecato capitale umano similarmente come avviene con una rete idrica che presenta diverse falle. Si spazia dall’abbandono scolastico alla mancanza di orientamento nelle scuole superiori, dalla cattiva reputazione sociale degli istituti tecnici al conseguimento della laurea per ottenere semplicemente il titolo richiesto dalle aziende.

Oltre ad una mancata o inadeguata formazione all’ingresso, soffriamo anche a causa della veloce obsolescenza delle competenze durante l’età adulta della mancanza di politiche aziendali e non sulla formazione continua. Si rendono pertanto necessari interventi di reskilling e upskilling.

Occorre responsabilizzare i singoli lavoratori e le imprese. Queste ultime in particolare devono preoccuparsi del rischio obsolescenza che corrono le competenze dei lavoratori. Inoltre in un contesto demografico avverso, serve un cambiamento culturale, accogliendo, tra le varie, politiche di allungamento della vita lavorativa.

Più che riformulare massicci prepensionamenti, occorre pensare a piani di riconversione e riqualificazione incentivando la formazione continua e rendendo meno accessibili gli ammortizzatori sociali. Il Rapporto Ocse “Adult learning in Italy” (2019) ci ricorda che oggi solamente il 20% degli adulti partecipa ad attività di formazione, la metà rispetto alla media OCSE.  Questa percentuale, inoltre, scenderebbe al 9.5% per gli adulti con competenze basse, il gruppo che ha maggior bisogno di formazione. Indagini sulla cultura della popolazione italiana evidenziano due problemi: il persistere di livelli bassi di qualificazioni e di titoli di studio, cui corrisponde la limitatezza di competenze e la quota estremamente ridotta di adulti impegnati in attività di studio e formazione.

Quando “perdiamo” un lavoratore perché entra in uno stato di inattività (all’età di 40-50 anni), se questo non viene aiutato nella ricollocazione, rischia di degenerare in un problema sociale – e sanitario. La depressione per la mancanza di lavoro, l’insufficienza di risorse per le cure e la povertà previdenziale aumenteranno l’esclusione e rischiano di costituire già oggi un incremento della spesa sociale e sanitaria che non sarà facilmente sostenibile per il fragile bilancio pubblico italiano.

L’allungamento della vita porterà molte persone a sopravvivere al proprio risparmio, per questo non possiamo ritardare l’ingresso nel mercato del lavoro né permetterci di avere migliaia di lavoratori in pensione anticipata. Long working lives richiederanno sì servizi efficaci per il lavoro, ma soprattutto una educazione al lavoro e alla prevenzione contro la “disoccupazione”.

Anche per una buona vita lavorativa esistono stili di vita corretti e non o addirittura rischiosi, sia per il singolo individuo sia per la collettività, che ne paga le conseguenze in termini sociali e di spesa pubblica. Non proseguire gli studi, non intraprendere percorsi di qualità, non aggiornarsi, non integrare le proprie competenze, non curare le soft skills sono solo alcuni dei comportamenti errati che aumentano il rischio disoccupazione, specie di lungo periodo, e soprattutto non favoriscono il rientro nel mercato del lavoro in caso di perdita del posto.

Porsi in attesa del lavoro giusto o scegliere un corso di formazione senza una progettualità e determinazione porta di conseguenza a ritardare l’ingresso nel mercato del lavoro, con danni al singolo in termini di esclusione e di scarsa adattabilità al lavoro. Per questo occorre stimolare un comportamento responsabile da parte dei singoli. Come per la salute serve stimolare ed incentivare comportamenti virtuosi, con particolare riguardo alla propria employability. Anche come lavoratore diventa necessaria la prevenzione rispetto alle innovazioni e all’obsolescenza delle competenze e quindi al rischio disoccupazione.

In un contesto economico così dinamico e in continua evoluzione, il capitale umano rischia di trasformarsi facilmente in uno “scarto” del processo capitalistico e dei continui processi di innovazione. Basti vedere cosa è accaduto e sta accadendo nel settore del credito, delle assicurazioni o del commercio, per citare alcuni settori.

Per far sì che ciò non avvenga serve una formazione continua e di qualità mirata a prevenire l’obsolescenza delle competenze ma anche a riconvertire le competenze rispetto ai nuovi mercati (si vedano i cambiamenti di competenze necessari per far fronte alle innovazioni che il motore elettrico sta portando nel mercato automobilistico).Bisogna evitare comportamenti snobistici nei confronti di certi percorsi di studio o di certi lavori onde evitare di rimanere molti anni senza lavorare. Con l’allungamento dell’aspettativa di vita, serve favorire l’active ageing e non i pensionamenti anticipati, altrimenti oltre ad avere pochi e deboli lavoratori avremo anche numerosi e poveri pensionati.

Diverse le sfide da affrontare nei prossimi anni: incentivare la transizione ecologica, favorire un’industria 4.0, innovare i servizi, tenere conto della maggiore interdipendenza economica, gestire la transizione demografica e favorire un aumento della vita lavorativa (active ageing).

Cosa possiamo fare in concreto?

L’esperienza internazionale ci suggerisce quanto segue: Programmi di labour education nelle scuole e nei luoghi di lavoro per responsabilizzare i singoli, altrimenti rischiamo di aumentare le diseguaglianze e i costi sociali.

Rilanciare le competenze matematiche, scientifiche e tecnologiche, superando la cattiva reputazione delle materie scientifiche e l’immagine delle stesse quali “materie difficili”.

Responsabilizzare le imprese nella prevenzione alla disoccupazione, obbligandole a monitorare e rafforzare il patrimonio di competenze dei propri addetti.

Rafforzare il welfare aziendale, cercando di estenderlo ai contratti di lavoro flessibili, con particolare riferimento alla previdenza, alla sanità integrativa e alla formazione continua.

Rendere più costoso il contratto a termine, prevedendo una contribuzione aggiuntiva da destinare alla costituzione di un fondo per la formazione (non all’Inps) come avviene per il contratto di somministrazione.

Attivare i corpi intermedi come gli enti bilaterali, gli enti di formazione e le parti sociali, più efficaci in quanto prossimi alle imprese e ai lavoratori, in funzioni di monitoraggio, di intervento, di orientamento e di formazione idonee a ridurre il rischio disoccupazione.

Consentire l’accesso agli operatori del mercato del lavoro ai dati sulle assunzioni e sui pensionamenti per orientare l’attività degli Enti verso la misurazione delle proprie performance sull’attività formativa.

Se in base alle previsioni demografiche, difficilmente modificabili, avremo meno giovani, quei pochi dovremo riuscire a non perderli durante le diverse transizioni della lunga vita lavorativa.

Alessandro Verbaro – Fondo Est

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