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La paura dell’altro ai tempi del Coronavirus

giovedì 5 Marzo 2020
bar-coronavirus

di Flora Inzerillo, Psicologo Clinico

Il tema dell’altro inteso come incontro con il diverso da noi è uno degli interrogativi che da anni si pone la psicologia dinamico-clinica. Quando si parla di Altro, in termini psicodinamici, si fa riferimento soprattutto a quelle parti ombra, straniere, che ci appartengono e con le quali spesso sorgono le maggiori conflittualità proprio a causa del loro mancato riconoscimento.

Flora Inzerillo
Flora Inzerillo

Purtroppo gli ultimi decenni della nostra epoca sono stati caratterizzati da una cultura dell’Altro concepito sempre di più come un limite che come una risorsa, come una alternativa a noi piuttosto che come un alternativa per noi, alimentando la difficoltà a legittimarne i bisogni e i desideri, quando questi ultimi non coincidono con i nostri (vedi la paura dello straniero, la gestione degli sbarchi e dei migranti, etc). Venendo sempre meno tale capacità,è venuta a mancare anche quella “condicio sine qua non”, non soltanto per costruire spazi di cittadinanza attiva, politiche per la convivenza e climi di benessere sociale, ma anche per la salute della psiche collettiva.. L’apertura mentale all’altro è, allora, prima di tutto, apertura mentale “all’Altro che abita dentro di noi”, e solo dopo diventa riconoscimento dell’Altro da Sé. La paura del coronavirus sembra avere messo a confronto immediatamente due generazioni:

  • da un lato le generazioni della cosiddetta “epoca moderna”, poco predisposte dal mondo sociale ad un allenamento introspettivo, che hanno orientato tutto il proprio vivere quotidiano su meccanismi di difesa finalizzati a respingere e proiettare all’esterno le paure del diverso, accentuando quel finto senso di appartenenza sia essa di tipo territoriale/fisica, che etnica/psichica (forse causa di “retaggi post-bellici?”);
  • dall’altro le generazioni del post-moderno le cui reazioni nei confronti della paura della contaminazione e del contagio appaiono più controllate di quanto ci si aspettasse, dimostrando incredibilmente una grande capacità di adattamento e mostrando un diverso concetto di appartenenza territoriale. Quest’ultima è infatti dai tanti vissuta non come appartenenza ad una comunità di riferimento per come si poteva intendere nelle passate culture antropologiche,ma a temi e valori culturali anche molto lontani da quelli di nascita, valori che tuttavia in qualche modo consentono loro di riconoscer-si ,di sentirsi riconosciuti e dunque di poter riconoscere l’Altro da Sé con maggiore tolleranza. Le restrizioni inoltre che i piani di sicurezza stanno imponendo, vietando la partecipazione ai così detti luoghi/non luoghi (discoteche, stadi, rave party, ecc.) offrono la possibilità ai nostri giovani di sperimentare “territori relazionali” probabilmente da loro poco contemplati. Ci si incontra e ci si vede in gruppi ristretti, nelle case private, nei bar, (luoghi che per le generazioni passate hanno avuto una loro connotazione…. Eravamo 4 amici al bar…) per trascorrere qualche ora la sera tra colleghi, amici, parlando e facendo circolare emozioni e sguardi. Tali dispositivi offrono la possibilità di mettere in gioco le proprie modalità relazionali e sensoriali, esplorando e facendo dialogare fra loro “le diversità” che ci attraversano e che “intenzionano” il nostro modo di stare al mondo. Sembra paradossale, ma forse nell’epoca del coronavirus può tornare utile quello strumento che per noi psicologi clinici è fortemente terapeutico: il piccolo gruppo. Rendere parlabili le proprie angosce e le proprie paure, all’interno di un contesto protetto, consente di produrre pensieri di tolleranza delle stesse ma al contempo consente anche quell’accoglimento del diverso che, in prima battuta sembra appartenere all’altro, ma che in realtà, specularmente, appartiene a noi stessi. Fondamentale è pertanto riuscire ad esplorare ed entrare in contatto con quelle nostre parti poco visibili, di cui non abbiamo consapevolezza, ma che orientano molto spesso i nostri pensieri e i nostri comportamenti. Dare voce a quei parlanti interni che regolano il nostro modus vivendi et operandi diviene, pertanto un compito indispensabile al fin di riuscire a far luce sulle tante ombre della nostra esistenza. In tal senso, la loro maggiore conoscenza diventa occasione non solo per migliorare il rapporto con se stessi, ma con tutti quegli Altri con i quali quotidianamente ci confrontiamo.

Auguriamoci dunque che tale modalità possa nuovamente “ri-contagiare” ognuno di noi, qualunque sia la nostra età fisica, psichica ed esperienziale.

 

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