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La Procura chiede il processo per Basile e le “carte false” per non riconoscere il figlio

lunedì 27 Marzo 2017

Chiesto il rinvio a giudizio per l’ex patron della Ksm, Rosario Basile. E’ la prima tranche delle indagini che in questi mesi hanno coinvolto l’imprenditore palermitano. Un dedalo investigativo sorto dalle denunce di una dipendente del gruppo, con la quale Basile ha avuto una relazione, dalla quale è nato un figlio non riconosciuto. L’ex titolare della società di vigilanza privata avrebbe minacciato la donna – poi licenziata – per farla abortire. Il fascicolo è affidato al pm Siro De Flammineis e le accuse sono di minacce e violenza.

Secondo le accuse l’uomo d’affari palermitano avrebbe organizzato un piano fatto di minacce, ritorsioni e violenza privata prima per evitare che il bimbo venisse al mondo e poi per non riconoscere il bimbo nato dalla loro relazione sentimentale. Quando fu chiaro non solo che la donna non avrebbe abortito, ma che il figlio che portava in grembo era di Basile (una consulenza sul Dna, allegata al processo civile, stabiliva una compatibilità del 99,9 per cento) sarebbe scattata la ritorsione dell’imprenditore che avrebbe licenziato la dipendente e fatto “carte false” per screditarla, inventando anche una relazione tra la donna e un altro dipendente, sostiene l’accusa. L’ex titolare della società di vigilanza privata avrebbe minacciato la donna per farla abortire e poi l’ha licenziata. Oltre a Basile rischiano il processo Francesco Paolo Di Paola, ex dirigente della Ksm (che avrebbe aiutato l’imputato), Marcella Tabascio (segretaria di presidenza della Ksm), Salvatore Cassarà, maresciallo dei carabinieri indagato per rivelazione di segreto istruttorio, Veronica Lavore, Antonino Castagna, dipendente della Ksm (accusato di violenza privata), Francesco Spadaro, altro dipendente della Ksm, e Salvatore Lo Presti.

Nel corso di un interrogatorio davanti al gip, alla fine, Basile aveva respinto l’accusa di avere ordito un piano contro la donna, ma si era detto pronto ad assumersi le proprie responsabilità. Cosa che poi non avvenne. Nel processo civile il giudice ha stabilire la paternità del bambino riconoscendo anche un risarcimento al bambino di 28 mila euro nonostante la donna ne avesse chiesto 200 mila euro.

 

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