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La storia a tavola: cibi e mode culinarie nella Sicilia borbonica

sabato 29 Dicembre 2018

Quando ci troviamo davanti a un bel piatto di spaghetti al sugo di pomodoro, oppure quando sorseggiamo una tazzina fumante di caffè, non ci rendiamo quasi mai conto che non stiamo semplicemente gustando una pietanza o una bevanda, in realtà stiamo facendo molto altro, stiamo prendendo letteralmente a morsi la storia. Infatti, ogni vivanda è portatrice di un universo culturale immenso e incredibile. L’alimentazione di un popolo, di una società, di una determinata classe sociale, è espressione delle possibilità economiche e materiali ma è anche specchio della mentalità di ogni gruppo sociale, delle mode di un’epoca: non è un caso che tanti cibi, un tempo ritenuti rari e preziosi, quindi consumati dalle élite, abbiano poi suscitato meno fascino sulle classi egemoni, come per esempio le spezie.

La Sicilia, grazie alle condizioni climatiche favorevoli e alle numerose influenze culturali assorbite, può vantare una cucina enormemente ricca, frutto di secoli di storia. Fra le tante tradizioni culinarie, l’Isola può vantare quella della pasta secca, essendo stata la prima regione europea a produrla e a consumarla in quantità: tant’è vero che nel Medioevo i siciliani saranno soprannominati i “mangiamaccheroni” (soprannome attribuito nel Seicento ai napoletani) e il geografo Idrisi attestò già nel XII secolo industrie di pasta a Trabia.

Interessante è porre l’attenzione sulla cultura culinaria isolana durante il periodo borbonico, in particolare tra Settecento e Ottocento, una cucina che da una parte seguiva le mode francesi e dall’altra rimaneva fedele alla propria tradizione. Infatti, a fine Settecento, re Ferdinando che era goloso della pasta secca, soprattutto dei vermicelli, che tra l’altro si consumavano anche nei banchetti ufficiali, ordinò a don Gennaro Spadaccini di inventarsi un modo per poter prendere più comodamente la pasta, essendo quest’ultima calda e scivolosa, per cui venne modificata la forchetta (fino a quel momento a due o tre denti), adesso fornita di una piegatura e di 4 denti corti.

Tra gli aristocratici, il pranzo si articolava solitamente in questo modo: si apriva con zuppe e minestre, poi il pesce al forno o lessato, seguivano le carni, solitamente i nobili consumavano selvaggina o pollame, raramente la carne bovina e di maiale. Infine il pasto terminava con i dessert, che comprendevano frutta fresca e dolci o gelati, durante l’estate immancabile il sorbetto. I dolci venivano preparati nei conventi, oppure, per chi se lo poteva permettere, dai pasticceri.

Per quanto riguarda la cucina borghese, è di grande importanza il trattato stampato a Palermo nel 1814 “La cucina casareccia” di cui è ignoto l’autore, contenente 150 ricette, rivolte a un pubblico che sapesse leggere e avesse le possibilità economiche per potersi permettere una cucina ben attrezzata. Nel ricettario la pasta occupa un posto marginale perché era un prodotto molto costoso, costava quasi il trenta per cento in più del pane dc era quindi un cibo consumato da chi poteva spendere.

La cucina contadina si basava sulle zuppe, spesso allungate con l’acqua, fatte con cicoria, finocchio selvatico, erba cipollina, spinacio selvatico, bietole, borragine e asparago, inoltre i più poveri, coloro che non potevano permettersi una vera cucina, cercavano di sfamarsi con il “pane cumpanis”, si trattava di fette di pane strofinate d’aglio oppure pane e cipolla, pane e olive verdi o nere, pane e tumazzo (formaggio giallastro fatto con qualsiasi tipo e qualità di latte), e poi insalate con i prodotti che poteva offrire l’orto di casa, frutta fresca o secca, carne di gallina quando moriva. Le domeniche contadine, a volte, erano caratterizzate dal consumo di carne di maiale, salata e seccata o dal tonno sottosale. Nelle zone costiere, le classi popolari consumavano pesci poveri e si utilizzavano metodi di cottura economici, soprattutto l’arrostitura. Nelle famiglie di pescatori veniva ancora preparata una zuppa medievale, l’ “agghiotta”, fatta con gli scarti del pesce.

Ricordiamo che i nobili siciliani erano affascinati dalla moda della cucina francese, che aveva conquistato le aristocrazie europee, per cui nei loro pasti non era raro incontrare piatti e prodotti estranei alla tradizione siciliana, che a volte venivano però leggermente modificati. Infine il consumo del caffè e della cioccolata era segno di distinzione sociale: solo le èlite consumavano queste bevande, infatti nelle ville settecentesche siciliane era normalità imbattersi in una Cafè House, dove la bevanda veniva consumata tra piacevoli conversazioni con gli amici. A fine Settecento le botteghe di caffè iniziarono a diffondersi sempre più: nel 1816 a Palermo, se ne contavano una cinquantina. La cioccolata era la bevanda più cara e rara, la cui lavorazione si radicò fortemente in Sicilia, pensiamo a Modica oppure all’importante produzione palermitana, attestata già a metà Settecento dall’istituzione della corporazione dei cioccolatieri di Palermo.

Insomma, da questo velocissimo excursus, a volte anche ghiotto, non è difficile comprendere che dietro a un piatto c’è un mondo: gli alimenti adoperati, i metodi di cottura e di preparazione, il modo in cui vengono servite e consumate le vivande non sono mai casuali, alla base ci sono sempre delle motivazioni di vario genere, magari per seguire le mode del momento oppure per cercare di sfamarsi o per risparmiare il più possibile. Entrare nella storia dell’alimentazione vuol dire quindi entrare nella storia economica, sociale, materiale e culturale di una società.

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