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L’Amore ai tempi del covid-19 – Quinta puntata | VIDEO

sabato 16 Maggio 2020

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di Andrea Giostra e Roberta Cannata

Oggi sono esattamente 50 giorni che sono chiuso in casa. Per fortuna da Palermo, dove ho casa nel centro storico della città a due passi dal Teatro Massimo, un paio di giorni prima che venisse dichiarata la Pandemia, sono venuto a Montelepre dai miei. Il sabato o la domenica di ogni settimana, infatti, salgo in paese per stare con i miei genitori e rimango con loro per uno o due giorni per poi rientrare in città il lunedì mattina. Adesso invece sono passati 50 giorni. 50 giorni di clausura di stato. 50 giorni nei quali ho fatto una vita con un ritmo incredibilmente militaresco: sveglia alle sei e trenta, doccia e barba, colazione alle sette e quindici, telegiornale su Rai News 24 fino alle otto e trenta così ascolto la sempre interessante rassegna stampa dei quotidiani nazionali e internazionali. Alle otto e trenta dal piano terra, dove c’è la grande sala da pranzo open space, risalgo al primo piano dove, oltre alle camere da letto, c’è lo studio. Inizio a quell’ora a lavorare o a scrivere. Il salone del primo piano è di oltre 40 metri quadrati. Da alcuni anni me ne sono impossessato. Ci ho piazzato, ob torto collo per mia mamma, il mio studio monteleprino che ha preso il posto di un’altra sala da pranzo e relativo salotto pseudo barocco, adesso vintage, che nessuno ha mai utilizzato. L’arredo ha come pezzi pregiati il mio pianoforte, i miei strumenti musicali, i miei libri, le targhe delle varie competizioni alle quali sin da bambino ho partecipato, i fascicoli di lavoro che da Palermo sposto a Montelepre e da Montelepre a Palermo quando rientro in città.

Durante questi giorni ci sono momenti che questa solitudine fisica rende inquietanti. Altri che invece vivo come rassicuranti. Improvvisamente, da 50 giorni a questa parte, tutto lo stress del mio lavoro fatto di scadenze perentorie, urgenze, riunioni, compilazione di documenti, carte, burocrazia, fascicoli da preparare per varie questioni progettuali e di lavoro, si è magicamente dissolto. Non sento più lo stress. Me ne sto accorgendo adesso che sto scrivendo questa puntata de “L’amore ai tempi del Covid-19”. La sospensione lavorativa di queste settimane certamente ha prodotto questo beneficio: le scadenze perentorie che se disattese ti possono procurare danni lavorativi ed economici seri, sono magicamente sparite!

Penso a questa strana cosa e sorrido. È un sorriso divertito ma al contempo amaro perché so bene che io ho bisogno dello stress da lavoro per stare bene. È un paradosso? Certo che lo è! Ma mi rendo conto che è proprio così. L’essere tenuto quotidianamente sotto pressione dagli impegni di lavoro, dalle relative scadenze, dai vari rischi d’impresa come si chiamano in gergo, è per me salutare! Di una salute mentale più che fisica. Dell’essere impegnato quotidianamente in qualcosa da costruire, da creare, che non mi conduca alla noia: il mio peggior nemico! Non potrei mai vivere in una spiaggia deserta dei Caraibi disteso su un comodo lettino sotto un colorato ombrellone con in mano un ottimo drink caraibico a base di succhi, di frutti tropicali e vodka, in compagnia di una bella e simpatica partner di vacanze che ti coccola e s’intrattiene allegramente con te. Dopo due giorni fuggirei di corsa nottetempo!

Pensavo a queste cose mentre ammiravo la distesa pianura verde proprio al di là della grande finestra del mio studio monteleprino che mi consente di ammirare i venti tra borghi e paesini che affollano questa splendida vallata che s’affaccia sul Mar Tirreno.

Squilla il cellulare.

È Giovanni. Caspita, mi dico, è da mesi che non lo sento, che non lo vedo. L’ultima volta ci siano incontrati a dicembre, poco prima di Natale. Successe per caso, in via Cavour, proprio vicino a La Feltrinelli dove spesso mi reco per leggere le prime pagine di qualche libro, decidere poi se acquistarlo o lasciar perdere, oppure, per dare un’occhiata ai nuovi titoli. Prendemmo un caffè al bar di fronte e ricordammo i tempi in cui la nostra comitiva di qualche anno prima organizzava feste e serate nelle ville e negli appartamenti dei nostri amici palermitani alle quali partecipavano ogni volta centinaia di persone. Bei tempi, ci dicemmo. Andati. Ricordarli adesso, in tempo di Covid-19, sembrano ancora più lontani e forse irripetibili.

Risposi…

– «Ciao Giovanni, come stai? Come va?»

– «Ehi Andrea, ciaooo… Io bene, tu?»

– «Bene, bene, grazie… Sono a Montelepre dai miei.»

– «Sì, sì, lo so, ho visto il video che hai pubblicato su Facebook qualche giorno prima che il governo ci rinchiudesse tutti in casa…»

– «Ah… sì… era il 7 marzo mi pare… ma quando l’ho fatto non pensavo dovessi rimanere qui per cinquanta giorni… Cazzo… Non se ne può più…»

– «Sì, non se ne può più. Io sono in appartamento in città. Figurati come sto vivendo queste settimane. Anche se ogni giorno vado in studio che come sai si trova al primo piano dello stesso condominio. E questa è un po’ una fortuna…»

– «Certo… un po’ come lo è per me… ma io sto in campagna… qui la situazione è davvero ideale, a parte la solitudine…»

– «Senti Andrea, ho letto della tua rubrica su “L’amore al tempo del Covid-19” che ho visto hai ideato insieme alla conduttrice e giornalista Roberta Cannata. Molto interessante. Mi piace molto sai? Già conoscevo come scrivi. Ma anche Roberta è bravissima. Complimenti ad entrambi.»

– «Grazie Giovanni…»

– «Ti ho chiamato perché mi è venuto in mente di raccontarti una storia. La mia storia di questi giorni di Covid-19. Magari ci scrivi la prossima puntata.» (ride Giovanni).

– «Perché no? Spara, dai, ti ascolto…»

Giovanni rischiarò la voce come se si dovesse preparare per una rappresentazione teatrale, per la recita di un racconto da presentare in pubblico con decine di spettatori pronti ad ascoltarlo attentamente, come se dovesse confessarsi, o forse, come se dovesse affrontare un’intima e riservata chiacchiera con un amico. La sua voce improvvisamente divenne impostata, con un tono che si alternava tra il serio e il divertente, tra il malinconico e il gioioso. Insomma, ebbi subito la sensazione che quella storia, la storia che mi avrebbe raccontato, per lui sarebbe stata impegnativa, emotivamente toccante, forte. Era una storia che forse, questa la sensazione che ebbi, aveva bisogno di tirare fuori, di raccontare a qualcuno, ad una persona fidata, ad una persona che sentisse amico, che lo avrebbe ascoltato, capito. Ma soprattutto che non lo avrebbe giudicato.

Giovanni inizio così a raccontare la sua storia d’amore al tempo del Covid-19…

– «Ricordi Angela l’avvocato? »

– «Chi? Quella bonazza che mi presentasti alla festa organizzata da Giuseppe nel grande terrazzo del suo attico che dà sul Politeama? »

– «Sì, sì, proprio lei… Ebbene, in questi giorni ho pensato alla nostra storia di allora. Sono passati poco più di cinque anni. Non la vedo e non la sento più da allora. Ma stranamente in questi giorni mi è tornata alla mente in modo poderoso, potente, quasi ossessivo, insistente direi. La conobbi casualmente durante una conferenza organizzata dal parlamentare europeo Pietro Tagliavia del quale allora fui consulente. Mi occupavo di programmazione europea e di piani di integrazione internazionale di paesi transfrontalieri. Fu a Palazzo Comitini che la incontrai per la prima volta. I nostri sguardi si incrociarono casualmente nella Sala Verde che dava accesso al Salone Martorana dove si sarebbe tenuta la conferenza e dove c’erano un centinaio di persone che avrebbero partecipato a quell’incontro. Fu uno sguardo fugace, fulmineo ma intenso. Durò pochi attimi. Meno di un secondo. I nostri occhi si fissarono per quell’istante che mi sembrò lunghissimo. Immediatamente dopo Angela girò il capo e riprese a parlare con i suoi amici raccolti in cerchio nella Sala Verde illuminata da una immenso lampadario di Murano che metteva in risalto i paesaggi, le stagioni e i meravigliosi affreschi di fine Ottocento che rendevano quel luogo incantevole. Io mi avvia verso la Sala Martorana per salutare Tagliavia e chiedergli se avesse bisogno di qualcosa. Mi liberai dopo pochi minuti. Ritornai nella Sala Verde e vidi che Francesco, il nipote di Tagliavia, la stava salutando. Mi avvicinai immediatamente. Salutai Francesco che senza che glielo chiedessi mi presentò a tutto il gruppetto del quale faceva parte Angela. Ci demmo la mano e ci sorridemmo, di un sorriso di cortesia che fu luminoso e sincero. Mi piacque molto. Colsi al volo l’occasione per attaccare discorso e le chiesi come mai fosse lì per partecipare a quella conferenza.»

– «Sono stata inviata dal mio capo.»

– «Il tuo capo? Scusa, ma chi è il tuo capo Angela? »

– «L’avvocato Ernesto Caruso. Lo conosci? »

– «Ah, sì… Certo, è molto amico di un mio caro amico. Io l’ho incontrato solo un paio di volte. Ci conosciamo così… superficialmente. Lavori nel suo studio?»

– «Sì, sto terminando il praticantato e poi dovrei continuare a lavorare con lui. Mi ha proposto di restare e mi farebbe un piccolo contratto. È uno studio associato dove ci lavorano una decina di avvocati.»

– «Ottima opportunità. Sempre che tu voglia fare l’avvocato penalista.»

– «Certo. È la mia passione da sempre lavorare nel penale. È quello che mi affascina di più del lavoro giuridico, del mestiere di avvocato.»

«La conversazione continuò per qualche altro minuto. Poi lo speaker della conferenza invitò i convegnisti a prendere posto perché era giunta l’ora di dare inizio ai lavori. Fulmineo le chiesi il numero di telefono. Me lo dettò, lo digitai nel mio cellulare, le dissi…»

– «Ti faccio uno squillo così registri il mio numero…»

«A dire la verità, volevo solo essere sicuro che mi avesse effettivamente dato il suo numero di telefono e non un numero finto. Cliccai il pulsante di chiamata e il suo telefono squillò. Angela lo guardò e mi disse…»

– «335 sei tu?»

– «Sì, sì… sono io. È il mio numero di telefono. Giovanni Randazzo.»

– «Giovanni Randazzo, scrivo…»

«Cazzo com’ero felice. Felice come un bambino al quale avevano appena regalato la bicicletta che ha sempre desiderato. Angela era di una bellezza che mi toglieva il respiro. Alta poco più di un metro e settanta che con i suoi tacchi dodici poteva guardarmi dritto negli occhi. Aveva capelli lunghi, nerissimi, ben pettinati, luminosi. Le labbra erano grandi, carnose, pronunciate. Il corpo sottile ma formoso. I suoi occhi erano gradi, profondi, neri, anzi, nerissimi. Ti dico la verità, Andrea, in pochi attimi quella ragazza mi stese.»

«Fu a quel punto che ci salutammo. Lei entrò e si sedette insieme ai suoi colleghi di studio. Io recuperai un posto nelle ultime file come facevo sempre in quelle occasioni pubbliche.»

«Dopo pochi minuti dall’inizio dell’intervento del moderatore le scritti un messaggio. Una cazzata, così, solo per sapere se mi avrebbe letto e risposto. Lo fece. Mi rispose dopo qualche secondo. Iniziò così la nostra prima conversazione su WhatsApp. Mi scrisse che si annoiava a stare lì in quella conferenza. Le proposi di vederci durante la prima pausa. Ci sarebbe stato un piccolo break per il caffè e dopo sarebbero ripresi i lavori. Così facemmo. Ci fu il break e sgaiattolammo via da Palazzo Comitini. Ci recammo in un bar a pochi passi. Ordinammo un caffè e dei biscottini secchi. Parlammo per oltre un’ora. Poi mi disse che doveva rientrare in studio per finire un lavoro. La mattina seguente avrebbe avuto un’udienza in tribunale. Le chiesi dove. Mi rispose che alle nove doveva essere in tribunale dal giudice di pace in via Cavour.»

– «Ci vediamo lì allora? Che ne pensi…» Le proposi sorridendo.

– «Perché no?» Mi replico.

«La sua riposta fu immediata. Senza esitazione. Ci salutammo fuori dal bar, e rientrai in studio con il mio scooter percorrendo il tragitto come galleggiando sull’aria. Mi sentivo bene. Leggero. Eccitato dalla gioia.»

«La mattina seguente alle nove in punto fui in tribunale dal giudice di pace. Salii al primo piano, girai per i corridoi sbirciando le varie stanze in successione ognuna delle quali piena di avvocati, personale di cancelleria, clienti, testimoni. La trovai dopo pochi minuti. La vidi dentro una stanza con un’altra collega, la sua controparte. Mi fermai sull’uscio ad osservarla. Aspettai che volgesse lo sguardo perché mi vedesse. Il giudice, seduto dietro la sua scrivania coperta da una montagna di fascicoli dalla quale spuntava solo la sua testa, disse alla sua assistente di chiudere la porta, di fare entrare chi doveva presenziare e di fare uscire tutti gli altri. Angela si girò e mi vide. Mi sorrise. Le sorrisi. Mi fece cenno di aspettarla fuori. Così feci. Dopo circa mezz’ora uscì.»

– «Possiamo andare. Ho finito.»

– «Prendiamo un caffè al bar?»

– «Certo. Ho bisogno di un ottimo caffè.»

«Ci sedemmo nei tavolini posti nella saletta interna del bar Cavour, prendemmo il caffè, parlammo per circa mezz’ora. Poi mi disse che doveva andare via.»

– «Tu che fai adesso?» Mi chiese.

– «Vado in studio. Ho un casino di cose da fare.»

– «Ma dove hai lo studio?»

– «Qui vicino. In via Rosolino Pilo. Conosci questa via?»

– «Sì, certo. C’è il notaio Valsecchi lì, giusto?»

– «Sì, proprio lì. Il suo studio si trova nel palazzo di fronte al mio. Io sono al civico trentasei.»

– «Fino a che ora rimani?»

– «Fino a stasera. Non ho appuntamenti fuori studio e devo terminare un lavoro.»

– «Magari se mi libero prima che vai via passo a trovarti così mi fai vedere dove lavori.»

– «Certo, ti aspetto.»

«Alle diciotto e trenta la mia segretaria mi chiamò al citofono interno per dirmi che c’era l’avvocato Angela Mazzola che chiedeva di me. Le dissi di farla accomodare nella sala d’aspetto. Chiusi la cornetta e andai a riceverla. Ci salutammo con una stretta di mano e un bacio sulla guancia. Le dissi di seguirmi. Entrammo nella mia stanza e ci sedemmo nelle due poltroncine degli ospiti, uno di fronte all’altra. Le chiesi come stava e cosa avesse fatto quella giornata. Iniziò a parlarmi del suo lavoro. Poi iniziò a parlarmi di sé, di quello che amava fare. Delle sue passioni. Dell’amore che nutriva per lo sport e per la giurisprudenza. L’ascoltai senza proferire parola. Poi improvvisamente si fermò. Stava riflettendo su qualcosa, forse stava cercando le parole giuste. Alzò lo sguardo verso il soffitto. Fu a quel punto che avvicinai le mie labbra alle sue labbra e la baciai. Ricambiò il mio bacio. Fu un bacio delicato, intenso, morbido. Non so per quanto tempo le nostre bocche e le nostre lingue rimasero appiccicate. Fu un bacio meraviglioso, unico, fantastico. Sentii il mio cuore accelerare i battiti e la potenza delle sue percussioni aumentare freneticamente. Il cuore mi stava esplodendo in petto. Mi fermai per recuperare il respiro. Le presi la mano destra, la poggiai sul mio petto e le dissi…»

– «Ascolta come batte forte il mio cuore. È letteralmente impazzito. Non mi era mai capitato prima una cosa così. Batte così forte per te.»

«Rimase con la sua mano poggiata su mio petto e sorrise. Mi sorrise con gli occhi lucidi di sorpresa. Forse di compiacimento. Non lo so. Ma era un sorriso spontaneo, gioioso. Una gioia che immaginai nata dai miei battiti che colpivano il palmo della sua mano. Tenne la mano poggiata sul mio petto ancora per qualche secondo. Poi il suo sguardo divenne serio. Mi fisso dritto negli occhi e io ripresi a baciarla.»

«Da quel momento in poi ci sentimmo tutti i giorni, continuamente. Quando usciva di casa per andare al lavoro. Prima di entrare in tribunale. Quando usciva dal tribunale. Prima di rientrare a casa per il pranzo. Prima di andare in studio il pomeriggio. Quando usciva dallo studio. Prima di ritirarsi a casa la sera dopo una giornata di lavoro. Insomma, ci sentivano in tutti i momenti che potevamo. E ogni volta per me era una gioia infinita. Ogni volta che sentivo la sua voce il mio cuore impazziva, cominciava a battere come un forsennato, come se avessi salito di corsa cento scalini senza prendere fiato. Dopo qualche giorno mi disse che il suo compagno sarebbe andato per lavoro a Catania e sarebbe rimasto lì fino al sabato. Decidemmo di vederci per cena. Io inventai una scusa alla mia compagna di allora. Le dissi che dovevo andare fuori città per lavoro, per un paio di giorni, a Trapani, dove avevo dei lavori in corso dei quali era al corrente.»

«Alle venti e trenta Angela arrivò con la sua piccola Peugeot. La parcheggiò in via Gaetano Daita e andammo a cenare da Papoff dove andavo spesso per pranzi o cene di lavoro, e dove conoscevo Giuseppe, il proprietario. Fu una cena leggera, piacevole, divertente, fatta di sguardi e di sorrisi più che di buone pietanze per le quali era molto noto in città quel ristorante. Dopo andammo a casa mia. Da un paio di anni mi ero trasferito dalla mia compagna che abitava in una casa di proprietà in prossimità del Teatro Politeama. Il mio appartamento si trovava dalle parti di Viale Strasburgo. Era piccolo ma molto comodo, ben arredato e con tutti i confort. Entrammo. Non accesi neanche la luce e la baciai. Tremavo come un bambino. La luce che filtrava dalle persiane illuminava la stanza quel tanto che bastava. Continuammo a baciarci, a toccarci dappertutto. I nostri corpi si ritrovarono spogli di vestiti e tremuli di aspettative, avvinghiati l’uno all’altro frementi di pulsioni carnali che sentii primitive. Il suo corpo era tremante, desideroso, il mio non rispose. Fallì. Fallii. Non mi era mai accaduta una cosa così. Balbettai qualcosa ma Angela poggiò il polpastrello dell’indice destro sulle mie labbra e le tenne chiuse. Poi mi sorrise e si abbracciò a me ancora più forte.»

«Rimanemmo abbracciati l’un l’altra guadandoci negli occhi. Non parlammo. Solo sorrisi e morbidi baci sulle labbra. Rimanemmo così per non so quanti minuti. Il mio corpo a poco a poco si rilassò. I battiti del mio cuore rallentarono, così come la loro frequenza e potenza. Fu a quel punto che Angela aprì il palmo della sua mano e lo poggiò sul mio petto.»

– «Lo senti Giovanni? Non batte più forte come prima. Si è calmato adesso.» Mi sorrise.

– «Sì, lo sento. Si è rilassato. È vero. Sto benissimo adesso.»

«Mi sorrise e avvicinò le sue labbra alle mie labbra. Ci baciammo ancora con passione. Ancora una volta il suo sapore fu prelibato, mieloso, saporito. Ah come fu bello nutrirmi di quel nettare umido che mi scorreva in gola stordendo tutti i miei sensi… Fu a quel punto che Angela scavalcò la sua gamba sinistra sopra il mio bacino. La guardai negli occhi dal basso verso l’alto dove la ritrovai ritta, con i suoi seni generosi e grandi che mi dominavano. Con decisione e delicatezza unì il mio corpo al suo corpo. Poi calò il suo viso sul mio viso. Mi baciò voracemente come io la baciai voracemente. Con la mia mano destra la presi per la nuca comprimendo le sue labbra ancora più forte sulle mie labbra. Con la mano sinistra la strinsi per la schiena per tenerla avvinghiata a me mentre i nostri respiri divennero affannosi e gutturali. Fu fantastico. Davvero fantastico. Rimanemmo abbracciati per tutta la notte, fino all’alba. La nostra storia andò avanti magnificamente per poco più di tre mesi. Ci vedevamo tutti i giorni. Trovavamo sempre il modo di andare a casa mia anche solo per un’ora. Un giorno le dissi che avrei lasciato la mia compagna con la quale da quasi un anno oramai non andava più bene niente. Le raccontai che la nostra storia era finita da tempo, da molti mesi. Oramai facevamo l’amore raramente, così dissi ad Angela.»

«Quella stessa sera parlai con Luisa, la mia compagna. Le dissi che sarei ritornato a casa mia. Non potevamo più continuare a stare insieme. Lo sapeva lei. Lo sapevo io. Cominciò a piangere senza freni. A singhiozzare. Mi minacciò che se l’avessi lasciata si sarebbe suicidata buttandosi dal balcone. Quella frase mi turbò, mi scosse parecchio. Non mi era mai capitata prima una cosa del genere. Rimasi molto colpito. Sapevo bene, dentro di me, che era solo una minaccia e che non l’avrebbe mai fatto. Ma ti confesso che ebbi un po’ di paura. Non avrei mai potuto raccontare ad Angela quell’episodio. Non lo so perché, ma non glielo dissi. Forse perché pensai che non mi avrebbe creduto. O forse perché non volevo che pensasse che avessi paura di abbandonare la mia compagna. O forse lo feci per mantenere riservato un fatto privato, intimo, della mia compagna che non sentivo più come la mia compagna. Non lo so. So solo che non lo feci. Con Angela presi tempo. Quando ci vedemmo il giorno dopo le dissi che avrebbe dovuto avere qualche altra settimana di pazienza. Che non avrei potuto lasciare subito Luisa perché dovevo sistemare con lei delle cose. Mi ascoltò in silenzio. Non disse nulla. Mi guardò per tutto il tempo dritto negli occhi. Poi mi salutò con un bacio sfiorandomi le labbra. Se ne andò. Se ne andò via per sempre.»

«Ecco Andrea, questa è la mia storia. La storia che ho rivissuto nella mia mente in questi giorni di Covid-19. Forse questa condizione di cattività l’ha riportata alla luce in modo così poderoso. Non lo so. Ma è come se l’avessi rivissuta daccapo, con emozioni potentissime, vissute intensamente dentro la clausura del mio appartamento.»

Quando terminò il racconto pensai che Giovanni avesse ragione. In quelle settimane di Covid-19 c’erano anche storie di questo tipo. Storie che ritornavano a galla in modo irruento e inaspettato. Storie mai consumate del tutto. Storie vissute solo in parte. Storie che si erano interrotte improvvisamente. Storie che avevano lasciato cicatrici. Storie che avrebbero potuto essere qualcos’altro rispetto a quello che invece erano state. Storie impossibili. Sì, proprio così, storie d’amore impossibili. In fondo è proprio vero che le uniche storie d’amore che durano per sempre, in eterno, sono le storie impossibili. Quelle che non abbiamo mai vissuto veramente. Quelle che si sono interrotte bruscamente e inaspettatamente. Quelle che non sono mai nate per davvero. Quelle mai consumate. Quelle che abbiamo sperato di vivere ma che non abbiamo mai vissuto. Forse adesso, in queste settimane di pandemia da Covid-19, nella solitudine delle nostre stanze, nei silenzi inquieti dei nostri appartamenti, nella staticità relazionale del distanziamento sociale per regolamento di stato, tutte queste storie, ad una ad una, stanno ritornando a galla come tanti fagotti che avvolgono dolorosi ricordi ben confezionati che avevamo gettato in fondo al lago dell’oblio immaginandolo nostro complice, ma che invece adesso, al tempo del Covid-19, ce li sta restituendo ad uno ad uno galleggianti in superficie.

Pensai come la storia di Giovanni fosse uno di questi fagotti. Un fagotto che contiene una storia d’amore impossibile. E proprio perché impossibile, nella mente di Giovanni, quella storia d’amore sarebbe durate per sempre. Una storia d’amore rivissuta irruente al tempo del Covid-19.

“L’Amore al tempo del Covid-19” …appuntamento alla prossima puntata su questo stesso canale…

LE PUNTATE PRECEDENTI:

L’Amore al tempo del Covid-19 | VIDEO

“L’Amore al tempo del Covid-19” – Seconda puntata | VIDEO

L’Amore ai tempi del Covid-19 – Terza puntata | VIDEO

L’Amore ai tempi del Covid-19 – Quarta puntata | VIDEO

Roberta Cannata

https://www.facebook.com/roberta.cannata.9

https://www.instagram.com/robycannata1/

Andrea Giostra

https://www.facebook.com/andreagiostrafilm/

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