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Mariannina Coffa, la poetessa che con i versi ritrovò la libertà

domenica 25 Novembre 2018

Ci sono delle storie in cui ci si imbatte misteriosamente e danno quasi l’imperioso ordine di essere raccontate e ci si ritrova, così, a tratteggiare una figura di donna, Mariannina Coffa, poetessa di Noto, che, non familiare fino a pochi minuti prima, diventa improvvisamente così intima da avere il desiderio e la necessità impellenti di presentarla e farla a conoscere a tutti. Questa è l’impressione provata di fronte alla “Saffo sicula”, la cui vita può essere divisa in due fasi: nella prima, pur innamorata di un giovane musicista, cede al volere paterno e sposa un uomo benestante; nella seconda, invece, coraggiosamente, sfidando i benpensanti e la famiglia, pur additata come donna poco “onesta”, abbandonerà il tetto coniugale e si dedicherà libera, come una capinera a cui sono guarite le ali tarpate, al suo vero amore, la poesia. Questi gli spunti, ma adesso riavvolgiamo il nastro e iniziamo il racconto.

Mariannina Coffa

Chi era Mariannina? 

Mariannina, figlia dell’avvocato Salvatore Coffa, un liberale impegnato nelle vicende politiche del Regno di Napoli, e di Celestina Caruso, nacque a Noto il 30 settembre del 1841. Fu una bambina prodigio che il padre, compiaciuto, faceva esibire nei salotti con le sue poesie improvvisate dai temi estemporanei. Comprendendone le potenzialità, dopo una prima istruzione nella città natale, nel 1851, mandata a studiare al collegio “Peratoner” di Siracusa, venne affidata al canonico Corrado Sbano, abile verseggiatore e vera e propria autorità nel campo delle lettere, che ebbe il compito di vigilare sulle letture, sugli esercizi di versificazione e sui temi delle composizioni. In realtà il pio sacerdote, chiuso nella sua ortodossia religiosa e in una miope intransigenza purista, che metteva in guardia la bimba sia dal pessimismo ateo di Leopardi, sia da tutti “gli autori esagerati e intemperanti”, cercò di impedirne una libera e spensierata maturazione intellettuale ed artistica. La piccola, però, di carattere indomito e curioso, contravvenendo ai divieti del Maestro, a volte, amava perdersi nelle terre proibite abitate da Shakespeare e Byron senza mettere mai in discussione i rigidi insegnamenti del suo mentore.

L’incontro con Ascenso, il grande amore

Le improvvisazioni poetiche di Mariannina ben presto furono apprezzate nell’Accademia dei Trasformati di Noto, di cui fece parte dal 1857 con il nome di Ispirata, nell’Accademia Dafnica e in quella degli Zelanti di Catania, che la considerarono “discepola eletta”. Nel 1855, a soli quattordici anni, venne pubblicata la raccolta Poesie in differenti metri e appena maggiorenne Nuovi canti; ma il 1859 fu per lei l’anno dell’incontro con il vero e unico amore, il venticinquenne Ascenso Mauceri, diplomato al Conservatorio di Napoli, suo bellissimo e colto insegnante di pianoforte e autore di drammi storici che sarebbero stati rappresentati alla Fenice di Venezia. Fidanzati ufficialmente, e felici per qualche tempo, i due giovani furono divisi, crudelmente e senza preavviso alcuno, dall’avvocato Coffa, padre di Mariannina, che, considerando la figlia oggetto e non soggetto d’amore, decise di darla in sposa a Giorgio Morana, un ricco possidente ragusano. Ascenso, disperato, le propose la fuga, ma la ragazza, incapsulata nelle regole della buona creanza dell’epoca, accettò, pur con lacerante dolore, di sottomettersi alla volontà paterna, andando incontro a quella che sarebbe stata la sua rovina.

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Il Matrimonio, la reclusione e i grandi dolori

Trasferitasi a Ragusa con il marito, reclusa in casa del dispotico suocero, iniziò una vita grama fatta di gravidanze annuali, due dei quattro figli morirono ancora infanti lasciandola nella disperazione, da cui riusciva ad evadere grazie alla poesia a cui poteva, però, dedicarsi solo di notte, nella sua camera da letto, al debole bagliore di una candela, perché il “marito padrone”, le aveva impedito persino di scrivere, ritenendo che tale pratica fosse uno strumento di perdizione se affidato in mani femminili. Anche nella corrispondenza con l’ex-fidanzato trovò scarsa consolazione. Pentita per averlo abbandonato, infatti, implorò Ascenso di vederla e riabbracciarla un’ultima volta, ma il ragazzo che aveva amato non esisteva più, al suo posto c’era un uomo che, per sopravvivere al dolore di quell’abbandono, si era chiuso in un rancore sordo, girando il mondo e continuando la sua vita senza di lei. “Noi, Ascenso, eravamo nati per amarci: amarci di quell’amore che gli anni non possono spegnere, perché le anime nostre troveranno sempre tesori sconosciuti da esplorare!… Vi prego Ascenso, vediamoci oggi stesso alle ore 22 a San Giovanni. Sono troppo infelice, venite per pietà e poi non ci vedremo mai più!” Queste le ultime parole che Mariannina scrisse al suo amato che non andrà a quell’appuntamento e non rivedrà mai più.

Giuseppe Migneco, “Il Sapiente Maestro”

La giovane, abbattuta da tanti dolori, costretta a sopportare angherie e umiliazioni, a comporre versi di notte ed esasperata dalla gente che cominciava ad additarla come folle, trovò conforto nei rapporti epistolari con grandi esponenti della cultura ottocentesca siciliana come Giuseppe Macherione, Giuseppe Aurelio Costanzo, Mario Rapisardi e sostegno in Giuseppe Migneco, dotto e geniale medico omeopata catanese, figura fondamentale nella seconda fase della sua vita. Detto dai seguaci “Sapiente Maestro” e dai nemici “Cagliostro il piccolo”, famoso per le efficaci cure prestate in occasione delle epidemie di colera, più volte esiliato per “esercizio di arte diabolica” e “spiritismo”, la introdurrà agli arcani del sonnambulismo e del magnetismo animale, anatemizzati dal Papa, che saranno i sistemi ai quali la sfortunata poetessa ricorrerà per cercare di curare i disagi del suo corpo, soffriva di fibromi all’utero, e della sua psiche. Mariannina si iscriverà a diverse Società occultiste e teosofiche italiane e straniere e attraverso lo stesso Migneco e un suo discepolo netino, il Dottor Lucio Bonfanti, verrà introdotta nella Loggia Elorina, le cui insegne apparirono durante i suoi funerali.

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La morte di Mariannina

Prostrata dalle emorragie provocate da fibromi all’utero, nel 1875 abbandonò la casa del marito per trovare nella città natale un clima sereno e adatto alle cure omeopatiche del Dottor Bonfanti che, avendola i genitori rinnegata per l’abbandono del tetto coniugale, la ospitò a casa sua, suscitando un vespaio di pettegolezzi. Mariannina finirà i suoi giorni, il 6 gennaio del 1878, tra gli stenti e con nessun familiare che volle pagarle le prestazioni di un chirurgo catanese il cui intervento avrebbe potuto, probabilmente, salvarle la vita. Pochi mesi prima di morire gridò in alcune lettere la sua ferma volontà di separarsi dal marito, ma il divorzio era un istituto ancora molto di là da venire. La sua città, nonostante la fama di donna scomoda e anticonformista, dichiarò il lutto cittadino e si assunse le spese del funerale, facendo erigere una statua in marmo di Carrara nella Piazzetta d’Ercole, dove ancora si trova.

Mariannina e il “Maledettismo francese”

Benedetto Croce, il più importante storico e filosofo del ‘900 italiano, così la descrisse

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“Figura di donna nubilosa, sofferente alle imposizioni sociali e famigliari, Mariannina sembra uscita direttamente dalle pagine di un romanzo verista di Verga, non poche sono infatti le similitudini con la Capinera verghiana“. La nostra protagonista di oggi, mai si sarebbe sognata di entrare nella storia della letteratura italiana guadagnandosi l’appellativo di “poetessa maledetta” e, poi, perché vi starete chiedendo? La definizione di “poeti maledetti” trae origine da un’opera del poeta francese Paul Marie Verlaine, ovvero Les poètes maudit che comprende, oltre ai testi dello stesso Verlaine, alcuni testi di Arthur Rimbaud, Tristan Corbière e Stéphane Mallarmé e, in un’edizione aggiornata, le opere della poetessa francese Marceline Desbordes-Valmore, dello scrittore francese Auguste de Villiers de l’Isle-Adam e di Pauvre Lelian, pseudonimo e anagramma di Paul Verlaine che definisce  i poeti maledetti: “anticonformisti, ribelli, innovatori, dei poeti assoluti”. La vita di Mariannina, a volerla osservare attentamente, presenta alcune analogie con questi ultimi: innanzitutto la condizione di disagio nei confronti della società, dominata dall’indifferenza che, se da un lato feriva le loro anime sensibili, dall’altro diventava, attraverso la poesia, strumento per sfuggire da un mondo non in grado di comprenderli fino in fondo; poi l’isolamento e la tendenza alla ribellione che, nel caso della Coffa, non portata all’eccesso con uso di droghe e alcol, fu, per l’epoca, con l’abbandono del marito, ancora più dirompente e plateale.

Cosa avrà ancora da dirci Mariannina?

Mariannina, che prova sulla propria pelle la “colpa” di essere nata donna, di saper leggere e scrivere e di voler imprimere sulla carta i suoi sentimenti; Mariannina, costretta a vivere una doppia vita, iscrivendosi di nascosto ad associazioni e accademie italiane e straniere e pubblicando, a volte con uno pseudonimo, per riviste nazionali come La donna e la famiglia di Genova; Mariannina, che rinuncia all’amore; Mariannina, col corpo recluso, ma con l’animo, lo spirito e le passioni che sfuggono a qualsiasi costrizione; Mariannina che, alla fine,  rivendica, con incredibile potenza, il valore più profondo della libertà e osa volare, potrebbe essere racchiusa in: “Ragione e passione sono timone e vela della nostra anima navigante” di K. Gibran, perché lei era vela e si costrinse a essere timone, anche se poi andò in mare aperto; era passione, ma si obbligò alla ragione, per dovere filiale. Mariannina, forse, col suo esempio vuole invitarci a non mascherare le nostre vite secondo i desideri e le aspettative altrui, ma di viverle nella nudità che noi abbiamo scelto.

La scrittrice e studiosa Marinella Fiume, nel suo libro “Sibilla arcana. Mariannina Coffa (1841-1878)”, che vi consigliamo caldamente di leggere, è riuscita con grande maestria e sensibilità a restituire al pubblico italiano la figura di una grande poetessa siciliana che meriterebbe, al giorno d’oggi, molta più visibilità. Vi lasciamo con una sua intensa e struggente poesia.

Farfalla innamorata

Ch’ergi le penne oltre le vie del sole
Pel tuo foco medesmo inebrîata,
Sibilla arcana per le tue parole,
Se il mistico pensiero
Che di cielo ti veste opra è del Nume,
Anch’io piango… ti adoro… e grido anch’io:
– Ecco un baleno dell’eterno vero,
Ecco una fiamma dell’etereo lume,
Ecco la creta che sospira a un Dio! –

Se l’anima potesse
Varcar la meta che le diè natura,
E gir soletta a quelle plaghe istesse
Da cui ne venne immacolata e pura,
Per gli occhi onde riveli
Fiamma cotanta io la vedrei rapita
Peregrinante a le commosse sfere,
E direbbe al pietoso astro de’ cieli:
Deh, riprendi i miei sogni e la mia vita,
Ma non torni alla terra il mio pensiere!-

No, non fuggir… consenti
Che teco io sugga l’armonie passate,
E l’ebrezza dell’alma e i voli ardenti
Che mi fero in un gaudio amante e vate.
Lascia ch’io beva il riso
Di tue movenze allor che ti favella
Lo spirito accenso per virtu del core:
Lascia ch’io m’erga al sospirato eliso,
Ch’io voli in grembo a la perduta stella,

E gridi al mondo: – L’anima non more! –

 

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