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Prostituzione e riti juju: A Catania condannati 11 nigeriani

giovedì 14 Ottobre 2021
immagine di repertorio

Centotrentasei anni di reclusione per undici imputati, tutti nigeriani, con pene comprese tra sei e venti anni ciascuno. E’ la sentenza del processo celebrato col rito immediato a poco più di un anno dall’esecuzione dell’operazione ‘Promise land’ della squadra mobile di Catania contro una banda che, secondo l’accusa, gestiva di una tratta internazionale di giovani donne e ragazze, loro connazionali, da ridurre in schiavitù e fare prostituire.

La condanna maggiore, a 20 anni di reclusione, è stata comminata a Osazee Obaswon, 34 anni, detto Ozes, ritenuto il capo dell’organizzazione. Gli arresti furono eseguiti in Sicilia, Piemonte e Veneto, il 12 giugno del 2020, durante una operazione della Squadra Mobile di Catania nei confronti di un network criminale transnazionale, con cellule operative in Nigeria, Italia, Libia ed altri Paesi europei, specializzato nel traffico di esseri umani. La polizia, coordinata dalla Procura distrettuale di Catania, grazie alla collaborazione di una vittima è riuscita a far luce su una rete che faceva arrivare dalla Nigeria giovani donne, anche minorenni, da avviare alla prostituzione in Italia e all’estero.

Quindici le vittime accertate, che nelle conversazioni degli indagati erano ”macchine”. Grazie alla collaborazione di una di esse, una minorenne giunta a Catania il 7 aprile del 2017 insieme ad altri 433 migranti con la nave Aquarius Di Sos Mediterraneè e, gli investigatori sono riusciti a ricostruire l’attività del gruppo, che in otto mesi, periodo di durata delle indagini, avrebbe movimentato un milione e 200 mila euro attraverso carte di credito Postepay, tutto denaro proveniente dall’attività di prostituzione alla quale le vittime venivano avviate dopo essere state fatte arrivare in Italia con la promessa di un lavoro e di una vita migliore. Le vittime dovevano restituire somme che andavano dai 25 mila ai 30 mila euro ciascuna e prima della partenza dall’Africa venivano intimidite dai riti juju ai quali erano sottoposte. Al reclutamento in Nigeria pensavano le famiglie degli indagati.

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