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Romanzi da leggere online: il quinto capitolo di “Silenzi d’amore”

domenica 7 Aprile 2019
"Il buon samaritano", Giacomo Conti (Messina 1813 – Firenze 1888), olio su tela.
"Il buon samaritano", Giacomo Conti (Messina 1813 – Firenze 1888), olio su tela.

La 14^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online”, continua con il quinto capitolo del romanzo “Silenzi d’amore” di Caterina Guttadauro La Brasca.


V CAPITOLO

 

Zia Tiziana, nella sua ultima stagione, non riuscì a elaborare il dramma di Anna, la perdita di sua sorella Lia. Lentamente la sua voglia di lottare diminuì e un pomeriggio Anna la trovò sulla sua sedia, sotto il suo albero, addormentata, ma in quel sonno dal quale non ci si può risvegliare. Dopo la mamma, se ne andava un altro pezzo della vita di tutti noi, una donna che, con il suo vissuto, rendeva onore al nostro essere donne.

Non aveva cultura, ma come la gente di un tempo, era depositaria di tanta esperienza e saggezza di cui tutti noi nipoti avevamo fruito in termini di consigli, dati sempre con umiltà, senza imposizione alcuna. Sembrava essere entrata e uscita dalla vita in punta di piedi; era, come si diceva a quei tempi: ‘una donna di una volta’, di quelle che si votavano totalmente al marito e ai figli, i cui bisogni erano sempre anteposti ai propri, senza svaghi o divertimenti, un solo vestito per la festa, mai un lamento, tutto da sopportare stoicamente nel nome della provvidenza.

Nella sua campagna tutto era stato annaffiato col suo sudore e concimato con la sua fatica. Aveva, per quasi ottant’anni, visto sempre lo stesso orizzonte e lo stesso tramonto, le sue canzoni erano i versi degli animali che lei riconosceva come fossero suoi figli.

Il suo sentire e provare amore era, come del resto per mia madre, concentrato all’interno della famiglia di cui lei era rimasta l’ultima rappresentante.

Veder morire sua sorella non aumentò il suo istinto di sopravvivenza, anzi, le fece cedere le armi, accusare tutta la fatica di una vita. Lentamente si fece vincere dalla stanchezza e in lei prevalse la voglia di arrendersi.

Se n’era andata in silenzio, come aveva vissuto, senza dare alcun pensiero a nessuno e lasciando a noi nipoti un esempio di generosità e altruismo. Da quel momento avrei dovuto fare a meno del suo parere saggio e coraggioso, avevo perso il porto sicuro dove mi rifugiavo tutte le volte che perdevo la rotta.

La seppellimmo nel piccolo cimitero di campagna perché, come lei ci aveva sempre detto, si sarebbe sentita estranea in mezzo alle grandi lapidi di un cimitero di città.

La sua definitiva dimora non aveva marmi, luci, ma avrebbe dormito cullata per sempre dai versi dei suoi animali e non sarebbero mai mancati i fiori, quelli modesti che la natura generosa fa nascere senza cura alcuna. Accanto a me c’era Emma, stava per partire per raggiungere Filippo, a letto per una noiosa influenza che lo aveva costretto ad annullare alcuni importanti concerti.

Da donna, ma ancor più da madre, capivo la sua voglia di sapere, di rendersi utile, di saperlo sereno.

Partiva per placare le sue ansie di madre e scongiurare i suoi timori e la incoraggiai ad andare. Era sola ad affrontare i suoi dubbi, le sue paure per avere appoggiato la scelta di Filippo di diventare musicista e decisi di raggiungerla se i fatti avessero confermato i nostri timori.

Ero vicina a Emma ma la distanza di età rendeva le nostre vite diverse, persino il modo di vivere il dolore: la perdita della mamma e ora della zia. Era Anna la mia vera sorella. A volte mi chiedevo cosa avremmo detto e fatto se solo Anna avesse avuto il dono della parola. Se avessimo potuto ascoltare le nostre voci, le nostre risate, le canzoni da intonare durante il ricamo delle tovaglie di lino nei pomeriggi freschi d’estate, sotto il gelsomino. Ora io e Anna eravamo sedute sulla panca accanto alla casa; l’aria cominciava a diventare molto più calda e le giornate cominciavano ad allungarsi.

Vedevo sull’albero le prime gemme che la natura avrebbe miracolosamente trasformato in frutti.

Anna si era alzata per andare a prendere qualcosa da bere e io guardavo la sedia a sdraio, lisa e sbiadita, dove la zia si sedeva con le braccia intrecciate dietro la testa per riposare. Mi sembrava di rivederla con gli occhi chiusi mentre io ed Emma, intente a litigare, strattonandoci con tutta la forza di cui eravamo capaci, la chiamavamo per rivendicare le nostre ragioni.

Lei, saggia, faceva finta di dormire finché noi, preoccupate per il suo prolungato silenzio, correvamo alla sdraio e fissando i suoi occhi chiusi pensavamo a una magia che non la facesse svegliare se non dopo averla baciata. Lei s’inteneriva e scoppiava a ridere, abbracciandoci.

C’era ancora il suo cuscino, lavorato all’uncinetto, ormai sbiadito nei colori, ma diventato quasi una reliquia per i ricordi suscitati in ognuno di noi.

Quella casa e quel fazzoletto di terra sembravano elementi di una storia che lo sguardo e la mente ci riproponevano, con la stessa immediatezza con la quale si materializza dinanzi agli occhi la scena in rilievo di un libro di favole.

Guardavo Anna ritornare con i bicchieri in mano e mi resi conto di quanta vita ci univa, del legame forte costruito tra di noi e della paura che mi assaliva quando mi chiedevo della sua autonomia di vita. La risposta proprio quel giorno me la diede Dolores mentre, seguita da te, porgeva a sua madre un foglietto con un disegno, accompagnato da una domanda che ci colse impreparate.

Il tema del disegno era la famiglia e raffigurava l’elemento femminile rappresentato da più figure, mentre mancava totalmente la figura maschile. Con il candore e lo stupore propri dei bimbi ci chiese perché lei aveva solo tante zie e neanche un papà o una mamma.

Urgeva dare alla bambina una risposta e non pronunciandosi Anna al riguardo, intervenni io dicendole che il suo papà mancava perché era lontano per lavoro. Questo episodio ci mise dinanzi a quello che sarebbe senz’altro accaduto tra qualche anno, a una realtà da non potere continuare a nascondere, e anche a chiederci se era nostro diritto privarla di un padre anche se non esemplare.

Mi preoccupò ripensare a una figura silente, ma sempre presente nel nostro destino. Ma mentre noi ne avevamo potuto fare a meno, Dolly no, e il suo domandare ne era la prova. Ci sono voci che dentro di noi urlano con il loro silenzio più delle parole e fermarci ad ascoltarle può cambiarci la vita.

Per me era naturale aiutare mia sorella ma anche lei mi aveva aiutato e non immaginava quanto. Avevo imparato dalla forza che mi aveva trasmesso con il suo coraggio, dalla tenacia con la quale era riuscita a vivere in un silenzio innaturale tutte le sue emozioni, dalle sue paure, dai suoi tentativi di comunicare agli altri le sue emotività. Di lei gli altri rammentavano solo gli inevitabili silenzi, i suoi sorrisi imbarazzanti, le lacrime soffocate dal buio delle notti non erano per tutti ma segreti da condividere solo con coloro di cui si fidava.

La vita avrebbe potuto farne una disadattata, esasperare la sua rabbia rendendola una donna triste ed egoista; invece si era quasi addolcita con la maternità, accettandola e non facendo pagare a nessuno il prezzo di un amore non ragionato.

La casa, per volontà della zia, era rimasta ad Anna.

Ma certamente non poteva rimanere da sola con la bimba in campagna, e non per il suo coraggio già grande, bensì per il suo handicap che, senza una compagnia, diventava un problema grave, in quanto la isolava dal resto del mondo e quindi anche dalla possibilità di percepire un pericolo o di chiedere aiuto. Mancando la zia, che aveva fatto da collante tra loro due, quella che prima era stata una difficoltà sarebbe presto divenuto un ostacolo insormontabile.

Dolly viveva quell’età dominata dalla curiosità verso ogni persona o cosa. Inevitabilmente arrivò il giorno in cui mi chiese perché zia Anna parlava diversamente da tutti noi, perché non sentiva i tuoni quando c’era il temporale, perché certe volte, l’aveva chiamata ma non era andata da lei. Non potevo non darle una spiegazione e pregai Dio di suggerirmi le parole più giuste per la sua età. La presi in braccio e le raccontai una storia, con la quale trasformai un dramma in una favola, ben consapevole che un giorno la realtà avrebbe avuto il sopravvento sulla fantasia, ma quel giorno era fortunatamente ancora lontano.

Le dissi che Anna era stata una bimba felice e normale come lei finché non si era ammalata. Ebbe una febbre così violenta da farla dormire tanto e quando si svegliò non poteva più parlare e sentire. Dolly mi guardò e incalzò: «Guarirà?».  Le risposi: «Forse un giorno, quando incontrerà un persona che l’amerà moltissimo e desidererà la sua guarigione, allora avverrà la magia».

«Ma allora – rispose la bimba − dovrebbe già essere avvenuto, perché io la amo moltissimo e vorrei che mi sentisse, perché faccio tanto fatica a spiegarmi».

«Hai ragione – risposi − ma non basta. L’amore se fa i miracoli deve essere immenso, quindi dobbiamo continuare ad amarla tutti insieme finché il male venga sconfitto. Comunque, tu e Lisa, imparerete un linguaggio fatto di gesti con le mani e con la bocca che vi permetterà di farvi capire e di capirla».

Per il momento ero riuscita a soddisfare la sua richiesta ma questo episodio crebbe la mia apprensione nel saperle sole e ne parlai con tuo padre. Papà non soltanto ascoltò attentamente i miei timori ma li condivise e, generoso qual era, mi tranquillizzò. Secondo lui avremmo trovato una soluzione tale da consentirci di vivere tranquilli.

Come facevo sempre per chiarirmi le idee, cominciai da quelle che, in assoluto, non volevo adottare. Non volevo vivesse la sua fanciullezza e la sua adolescenza tra le mura e il rigore di un collegio, che si sentisse abbandonata da tutti e tradita da Anna.

Non volevo nemmeno che Anna fosse allontanata da sua figlia, ricacciando dentro di sé, come aveva già fatto una volta, il bisogno di dare e ricevere amore.

Da parte mia, non volevo allontanarmi da entrambe. Insieme a Emma, erano le uniche rimaste della mia famiglia d’origine e, soprattutto, Anna doveva vivere in un mondo che aveva imparato a comunicare col suo. Con queste premesse la soluzione era scontata: sarebbero venute a vivere con noi.

Quando lo dissi anche a te, capii che questo era il regalo più grande che potevamo farti perché, come una farfallina, cominciasti a girare attorno al tavolo, ripetendo all’infinito: Grazie, grazie. Ora mi aspettava il compito più difficile: dirlo ad Anna, nelle dovute maniere, trovando un pretesto che favorisse questa soluzione, per non ferirla nel suo orgoglio, lei che, per tutta la vita si era sentita un peso per tutti.

Stranamente, quando glielo dissi, accettò subito. Mentre le sue labbra dicevano sì, i suoi occhi erano fissi su Dolores. Questo suo gesto mi fece capire che, in questo assenso, prevaleva la volontà di dare una vita normale a sua figlia; sapeva di non poter farcela da sola e di poter contare sul mio aiuto. Come era sempre successo tra di noi quando le parole mancavano, ci abbracciammo, come fanno due sorelle ma anche due complici e due madri.

Rispettai la sua opinione anche quando manifestò il desiderio di vendere la casa di campagna e di aprire un libretto postale a nome di Dolores per depositarvi il ricavato della vendita: sarebbe stata la sua dote. L’accontentai e venne il giorno di andarle a prendere. Secondo me abbandonare quel posto per sempre sarebbe stato per ognuno di noi e per motivi diversi, come perdere le nostre radici.

Voi bambine, in quel piccolo mondo verde e fiorito, avevate avuto un contatto privilegiato con la natura, in tutte le sue forme di vita. Avevate giocato con le farfalle, con le coccinelle, imparato a non avere timore degli animali che, se trattati con garbo e delicatezza, erano grandi amici dell’uomo.

I vostri disegni più belli erano stati tentativi di riprodurre la bellezza, tutti i giorni, sotto i vostri occhi. Avevate visto che in ogni cosa c’era una crescita, seguivate con stupore le gemme, da quando spuntavano fino alla completa fioritura. Vi eravate fatte aiutare per raccogliere da sole i frutti maturi dagli alberi e le buone marmellate che avevate mangiato erano un loro regalo.

Avevate respirato aria pulita, sole splendente e i vostri sogni erano stati cullati dal vento, dalla pioggia e, talvolta, vi eravate spaventate per i tuoni e i fulmini che squarciavano il cielo. Sapevate camminare sul sentiero per non danneggiare le piante, Bisognava dar loro da bere perché erano vive come voi.

Avevate condiviso queste emozioni perché spesso ti portavo con me. Questo consentiva a Dolly di poter giocare con un’altra bambina, confrontarsi con lei e capire la diversità delle emozioni. Tutti quei ricordi sarebbero andati via con la vendita della tenuta della zia o li avremmo portati con noi per sempre? Certo i ricordi sono dentro di noi e nessuno può rimuoverli, forzatamente o volontariamente.

A volte, quando devono far posto ad altri, li releghiamo in angoli più riservati della memoria. Diversamente è per le cose, per gli oggetti, per quelli urgeva una decisione: portarli tutti nella nostra casa o che farne? Mi guardavo attorno e, mentre spostavamo le cose di zia Tiziana, proprio come avevo pensato, Anna aveva lasciato degli oggetti che avevamo visto fin da piccole e ai quali non potevamo dare posto diverso da quello che avevano sempre occupato.

Così la spazzola della zia Tiziana rimase sulla minuscola toilette accanto alla scatoletta rivestita di pizzo da lei sapientemente confezionato. L’aprii, ammirandola, conteneva due forcine e un fermaglio con il quale fermava i suoi folti capelli raccolti in una treccia. Lasciammo i cuscini, le presine e la vecchia sedia a dondolo accanto al camino: aveva cullato i sogni di grandi e piccini, aveva raccolto confidenze ormai sciolte al calore e all’intimità delle braci. Stavamo andando via ma sentivamo la voce di ogni singolo oggetto. Lì avremmo voluto ritrovare tutte le volte che avremmo avuto voglia di passato.

C’era nell’aria il profumo, diverso ma intenso, di tre donne che avevano vissuto, lavorato e amato ogni zolla di quella terra e c’era anche il profumo naturale di due bimbe le quali, per la prima volta, vivevano l’amarezza del distacco. Mia sorella mi stupì ancora una volta. La trovai già pronta, con le valigie già fatte e pensai a quante lacrime avesse versato mentre le faceva. In quella casa un po’ sconnessa, senza lussi, era andata con sua figlia a caccia delle farfalle più belle, che finivano sempre, come i fiori, tra le pagine di un libro; le lucciole di sera rendevano il prato pieno di stelle.

Anche il pianto aveva tante volte rotto la pace di quella casa, ma tutto era mitigato dai colori, dai profumi, da quegli alberi che con la loro ombra conciliavano il sonno, mitigando il dolore, il rancore, la rabbia… Sotto quel portico, sovrastato da un pergolato sempre carico di tralci d’uva, era passata tanta vita.

Anna avrebbe voluto non cambiare nulla di quello che aveva condiviso con Tiziana, ma ci si accorgeva che niente era più lo stesso. Anna, da un po’ di tempo, aveva adottato un sistema di autodifesa: quando intuiva che c’era in arrivo una domanda che non voleva sentire, faceva finta di non riuscire a capirla, così usava un suo limite per evitare un dolore.

Soprassedevo su tutto, questi stati d’animo sarebbero stati spazzati via non appena coinvolta in tutti i nostri momenti di vita, nelle nostre gioie; speravo tanto fossero anche le sue.

Mentre scendevamo per il sentiero che portava alla strada sterrata, dove avevamo la macchina, misi il braccio sotto a quello di mia sorella e speravo di riuscire a trasmettere quella bella sensazione che provavo a vederci ancora insieme anche se eravamo meno snelle e più mature dopo la gravidanza.

Mia madre ci aveva sempre detto che la mancanza di uno dei sensi acuiva gli altri, e Anna, talvolta, era così ricettiva da prevenire le domande. Lei capiva il gesto che avevo fatto e mi fu grata di questo. L’ho intuito quando, giunti alla macchina, dove ci attendeva mio marito, la vidi corrergli incontro e abbracciarlo, salutandolo più come un fratello che come un cognato.

Le bambine, sedute dietro, sporgevano la manina dai finestrini aperti tenendo le girandole colorate comprate uguali per entrambe e, mosse dal vento, giravano vorticosamente. Ognuno salutò a suo modo quella casa.

Non si amano solo le persone in quanto vive e capaci di ricambiarci, si amano anche gli oggetti, le cose perché il nostro amarle dà loro un’anima, le rende vive. Ricordare quanto abbiamo dato e quanto abbiamo avuto è il potere che ha l’uomo di scrivere la propria storia e di tramandarla agli altri. La vita a casa nostra richiedeva da parte di Anna e Dolores, che da quel momento, per tuo desiderio, fu chiamata con il nomignolo di Dolly, un riadattamento.

Dapprincipio furono entrambe un po’ timorose perché erano abituate a farsi compagnia in tre, mentre casa nostra era molto animata da persone, animali e cose. Ben presto, però, avendo detto a tutti che erano persone di famiglia, ognuno cercò di farle sentire a proprio agio, ebbero molte premure, soprattutto Anna, con problemi relazionali. Dopo poco tempo, e la cosa mi stupì non poco, tutti in qualche modo riuscivano a farsi capire e a spiegarsi con Anna.

Mia sorella lavorava instancabilmente da mattina a sera, forse anche perché lo considerava un modo per sdebitarsi di tutto quello che io e mio marito facevamo per lei e sua figlia.

I bimbi, per fortuna, sono come animaletti, fanno casa dappertutto e così tu e Dolly sembravate nate dallo stesso grembo.

Io ero veramente pazza di gioia per essere riuscita a fare rimanere insieme mia sorella e sua figlia.»

“E io!? – mi chiesi dentro di me, corrucciandomi in viso – Eri contenta della mia presenza o ero solo in mezzo ai piedi, invisibile tra te e il tuo senso di umanità?”.

Ma guai a pronunciare quelle parole, Lisa non ne aveva il coraggio, ma ogni parola del racconto, che vedeva ancora accorata la madre, creava quella distanza invisibile con la donna che voleva riconquistare.

«Avevamo l’ammirazione di tutti per aver portato a casa nostra mia sorella e – proseguì mia madre − non sfuggiva agli occhi di tutti l’attaccamento della bimba per Anna, ma la giustificazione c’era: fin da piccolissima il suo viso era stato per lei quello della mamma ed era stata soltanto lei ad allevarla.

Davo a Dolly e a te le stesse cose per non farla sentire diversa e lei ne era felice; di contro, mia sorella, quando le regalavo qualcosa che accentuasse la sua femminilità, faceva fatica ad accettarla, sembrava volesse mortificare la sua bellezza, la sua giovinezza  vissuta solo qualche ora, in un giorno lontano, probabilmente su un letto di foglie di una vecchia casa di campagna, dove aveva provato la gioia di donarsi senza pensare al prezzo che avrebbe pagato.

Forse per questo considerava la vita debitrice con lei.

Il rispetto che non le fu usato quel giorno, lo ebbe centuplicato negli anni vissuti a casa nostra, dove nessuno osò mai guardarla con occhi diversi perché era la sorella della padrona.

Si capisce dopo, ‘da grandi’, come i sentimenti e gli atteggiamenti che ci interessano sono solo quelli delle persone amate e ignoriamo magari anni di devoto silenzio, di premure che si accompagnano a sentimenti sinceri e mai dichiarati.

Mi dispiaceva sapere che non poteva condividere con nessuno la sua intimità e un giorno, mentre eravamo sole, le chiesi se le sarebbe piaciuto rifarsi una vita e dare eventualmente un padre a Dolly.

Mi rispose, in maniera animata e confusa, ormai erano passati i suoi anni migliori e farlo avrebbe significato mettere in discussione quanto detto fino ad allora, confrontarsi col giudizio della gente, negare a Dolly l’esistenza di un padre che, nonostante tutto, aveva. Insomma a lei interessava solo la figlia con una vita normale come tutti…

Non avrebbe mai confessato a nessuno i suoi sogni infranti e la rabbia per non aver potuto, come tutte le altre donne, difendere i diritti suoi e di sua figlia, ma ci sono inverni nella vita che durano più di una stagione e lasciano il cuore coperto da una coltre di neve.

Il mio pensiero corse inevitabilmente a un’altra sorella che aveva perso la serenità: Emma, infatti, era rimasta da Filippo impegnato ad affrontare un problema che minacciava di rovinargli la carriera.

Mi raccontò come, per riuscire a trovare una risposta ai suoi dubbi aveva chiesto un incontro a Françoise la quale, comprendendo la sua ansia di madre, la incontrò subito il giorno successivo al suo arrivo, in un bar antico del Centro. Sorridevo, talvolta pensando a mia sorella Emma, era diventata una donna di mondo. Viaggiava per amore di suo figlio, ed essere la mamma del Maestro Piovani comportava essere ordinata, curata e, nonostante lei lo negasse, cercava di essere ricercata nel vestire.

Emma arrivò in anticipo per non fare aspettare Françoise.

La riconobbe subito, appena entrata nella sala, perché associò, mentalmente, il suo viso a quello della fotografia, tempo prima scoperta nella tasca dello smoking di Filippo.

Dopo essersi presentate e aver ordinato un tè, Emma si scusò di rubarle del tempo e le parlò dei suoi dubbi, delle sue ansie, chiedendole se almeno lei fosse in grado di darle una spiegazione. Precisò anche di essersi rivolta a lei in quanto amica, ma soprattutto collega di Filippo.

Emma era molto in pena e Françoise, sensibile quanto solo chi ama la musica può essere, seppur con imbarazzo, avvicinò la sua sedia a quella di mia sorella. Questo gesto rassicurò Emma. Quella giovane bella e raffinata capiva che la sua richiesta non era dettata da semplice curiosità ma da apprensione per la vita di un figlio.

Come talvolta accade fra donne, Françoise si confidò: «Signora Emma, io parlandole tradisco un preciso desiderio di Filippo, io lo amo così tanto che farlo mi fa sentire in colpa. D’altro canto capisco, anche se non sono ancora madre, la sua apprensione e il suo malessere per essere all’oscuro di tutto.

Le dirò ciò che so. Ovviamente conto sulla sua discrezione.

La scelta di Filippo di lasciarla fuori da questo problema è per non farla soffrire.

Io però penso si possa soffrire anche di più per un dolore immaginato, mentre quando il problema si conosce, si circoscrive in determinati ambiti che lo rendono reale e, al contempo, ci consente di affrontarlo con consapevolezza.

Qualche mese fa eravamo a Parigi per un concerto molto atteso dal pubblico e dalla critica. Quella esibizione era una vetrina molto importante e di conseguenza, ci eravamo molto impegnati nelle prove. L’esecuzione ne fu una conferma, tra ripetuti applausi e consensi, finché non arrivammo all’ultimo pezzo a quattro mani, quindi da eseguire insieme.

Al mio orecchio attento non sfuggì un suo cedimento. Anticipai la mia esecuzione, intervenni prontamente, e riuscimmo a ultimare il pezzo insieme, sperando che non si fosse notata la sua defaillance.

Il problema, ovviamente, non sfuggì ai critici presenti, uno dei quali il giorno dopo ne parlò sul suo giornale, precisando che il Maestro Piovani doveva una spiegazione ai suoi estimatori.

Conservai il giornale e la sera successiva, durante le prove, lo presi in disparte e senza profferire parola, glielo mostrai.

Non poteva tergiversare e il mio silenzio esigeva una spiegazione, così parlò. Mi disse che da un po’ di tempo le mani gli creavano dei problemi.

Non riusciva più a suonare per ore, come aveva sempre fatto, perché iniziava ad avere un indolenzimento alle mani, via via sempre più intenso. Era riuscito a mantenere fede ad alcuni impegni, decisi da tempo, solo grazie all’aiuto dei farmaci.

I medici gli avevano diagnosticato un’artrite reumatoide. Le medicine possono rallentare la progressione della malattia ma non guarirla.

Ovviamente questa diagnosi ha avuto per Filippo la valenza di una sentenza che gli preclude la possibilità di continuare a vivere della sua musica. Mi ha fatto promettere di non parlare ad alcuno del suo problema per non dare in pasto ai giornali la sua vita e la sua sorte.

Ho cercato di rincuorarlo e invogliarlo a farsi visitare da un luminare del settore. Dal momento che ho conosciuto la verità non sono più riuscita a non pensare al dramma di Filippo, io lo comprendo come amica ma soprattutto come musicista. Per noi le mani sono lo strumento del nostro lavoro, non poterle usare significa non poter più fare musica.

Per aiutarlo a confidarsi gli ho raccontato di un problema di salute avuto da mio padre anni fa.

Anche lui è una persona introversa che difficilmente confida i suoi problemi. In quel caso l’aiuto di mia madre fu determinante nel superamento della malattia. Gli ho fatto capire che condividere i problemi dà più forza per affrontarli e superarli. Da quel giorno mi ha consentito di aiutarlo: negli intervalli, ad esempio, corriamo nel mio camerino a massaggiare e frizionare con delle creme le dita oppure, durante le prove, usa dei guanti di lana per coprire le mani e le dita fino a metà.»

La giovane ebbe un momento di raccoglimento. Notando la tristezza sul volto di Emma, non sapeva se continuare o fermarsi lì. Poi, poiché era proprio per questo che era stata invitata, per avere le informazioni negate da Filippo alla madre, proseguì, sperando di rassicurarla almeno sul fatto che la malattia non era trascurata.

«Abbiamo consultato diversi medici, hanno espresso tutti, con leggere differenze, lo stesso parere… Sto tentando di contattare un collega il quale, mi è stato detto, anni fa ebbe lo stesso problema ed è riuscito a risolverlo. Ho chiesto a Filippo se lei era al corrente e mi ha risposto che non voleva preoccuparla ma, a tempo debito, avrebbe saputo tutto. Mi sono fatta promettere di lasciarmi rimanere accanto a lui in questa battaglia, per far sì che la musica che ci ha unito adesso non ci divida.

Così cerco di non lasciarlo solo, lo coinvolgo in tutti i miei lavori, usciamo un po’ di più. La malattia non doveva essere l’unico suo pensiero, per non mettere in crisi i suoi valori, in cima a tutti la fede. Provo spesso a suonare a casa sua, mi lascio consigliare, talvolta faccio finta di non aver capito e gli chiedo di dimostrarmi l’errore che da me fatto.

Voglio, insomma, che continui a sedersi al pianoforte, a sentirsi ancora inserito nel nostro mondo anche se, a breve, si dovrà comunque dare una spiegazione per giustificare l’annullamento di tanti suoi concerti. Io lo amo e capisco il suo dolore. Le prometto che sarò al suo fianco e, qualora la sua presenza fosse necessaria, la chiamerò.»

«Così la vita di mia sorella diventò un autunno, con solo qualche spunto di sole, tante giornate grigie la cui aria pungente preannunciava l’inverno.»

Mi intromisi tra mia madre e i suoi ricordi. Dando uno sguardo fuori dalla finestra nulla richiamava la luce rossastra autunnale, tutt’altro, accecante com’era quel giorno caldo d’estate. Eppure non era il calore a riempire il suo cuore, il suo parlare, ma, i leggeri brividi della stagione autunnale.

«L’autunno – disse − è da sempre la mia stagione preferita, quella che si avvicina di più al mio sentire. Delle quattro sembra la stagione meno creativa, ma non è così: è una stagione in cui la natura si prepara all’inverno, alla semina; i colori che ci circondano diventano il giallo, l’ocra, il rosso. Le foglie sono come certi amori, vivono solo una stagione.

È tempo di castagne, di vendemmia, di olive, le acque dei laghetti sono spente e le rondini, non trovando più cibo, vanno via a stormi e sembrano dire agli uomini: “Non disperdetevi, cercate i vostri sogni, rincorrete quelli che vi sono sfuggiti ma tornate sempre a essere ‘gruppo’ perché la vostra vita sia riscaldata dagli affetti e sia limpida come il cielo sereno.”

L’autunno è la stagione dell’attesa, della pazienza, in cui si raccolgono tutte le forze e si convogliano nella capacità di rinascere, di dare vita a una nuova primavera».

Mamma non sapeva cogliere le mie parole. Per Lei la vita era accadimento e poi racconto, mai interpretazione. Non riusciva a legare quel fragile filo, un tempo spezzato, da me tenuto in mano nel tentativo di riannodarlo. Perciò continuò il suo racconto da dove l’aveva interrotto e nulla mi fece capire se avesse compreso ciò che le aveva voluto dire con quella metafora del tempo e delle stagioni.

«Dalle parole di Emma seppi, tuttavia, come Filippo le aveva finalmente raccontato l’odissea che stava vivendo, la mancanza di risultati alle lunghe e fastidiose cure, la stanchezza di sentirsi sempre dire le stesse cose, senza una prospettiva di guarigione.

Rimase accanto a suo figlio, sostenendolo con la sua presenza e con il suo amore sempre più intenso soprattutto quando si accorgeva delle sue esecuzioni brevi, a volte imprecise. I grandi concerti erano, al momento, inaffrontabili per lui e le giornate prima troppo brevi, ora avevano dei vuoti, si riempivano di tristezza e di noia. “Aspettare” era la parola d’ordine.

Consigliai a mia sorella di rientrare a casa per non accrescere il nervosismo di Filippo, comunque amorevolmente sostenuto da Nannina e da Françoise. L’unica consolazione era, infatti, la presenza costante al suo fianco di Françoise. Lei era riuscita ad avere i riferimenti di un luminare parigino con il quale aveva concordato la data per un consulto. La molteplicità dei suoi impegni non le consentiva, però, di accompagnare Filippo e chiese a mia sorella di accompagnarlo lei.

Talvolta una madre deve sapersi mettere da parte e quando i nostri figli non chiedono il nostro aiuto non significa che non ci vogliano bene ma forse vogliono provare ad affrontare e superare da soli un problema, per dimostrare a sé stessi e agli altri il loro valore.

Certo, Anna ed io avevamo tutt’altri pensieri. Le nostre figlie erano ancora piccole. Eravamo entusiaste della vostra crescita, cominciavate a essere due piccole donne e facevate valere i vostri desideri, la vostra capacità di socializzare con gli altri bambini.

Qualche volta, avendo notato in te una punta di gelosia per la mia attenzione verso Dolly, con Anna facevamo finta di scambiarvi e tutto finiva in una grande risata.

La tua gelosia era motivata dal mio dare talvolta più ascolto a Dolly la quale sentendoti chiamarmi mamma, si rabbuiava in volto perché lei non sapeva e non capiva perché quel nome, il più usato da tutti i bambini in assoluto, lei non poteva attribuirlo a nessuno.

Era un problema più grande di lei ma, capivo e mi preoccupava il segno che avrebbe lasciato nella sua identità. Avrei voluto spiegarle come l’assenza di certe figure nella nostra vita, anche se dolorosa, talvolta è da preferire a una presenza fittizia. Un bimbo per crescere ha bisogno dell’amore di tutti, principalmente di quello di mamma e papà. Forse per sentirsi uguale agli altri, quasi inavvertitamente, chiamava mamma Anna, non sapendo che quella era la persona giusta, e lei chiamandola dava soltanto voce al suo cuore che non si sbagliava.

Sono stati anni belli, nonostante tutto: vivevamo in un modo confortevole e spensierato.»

«Ne sei proprio sicura?» mi inserii, per provocare mia madre, più sorda di chi lo era per natura.

«Crescendo, si diventa più attenti e quindi capaci di farsi delle domande e cercare le risposte – ribatté risoluta mia madre − quando non si è in grado di trovarle da soli, si rivolgono alle persone affettivamente a noi più vicine. Un giorno finalmente diedi risposta a una domanda che mi ero fatta da tempo. Come riuscivano a comunicare mia sorella e mia nipote, l’una senza i mezzi e l’altra troppo piccola per capire? Come faceva Dolly a conoscere il significato di alcune parole?

Mia sorella stava stirando e io ero andata a raccogliere i panni già asciutti. Mi accingevo a scendere i gradini e vidi Dolly precipitarsi verso Anna, parlando in maniera indistinta e concitata. La curiosità mi bloccò e rimasi immobile per poter intervenire qualora ci fosse stato bisogno. La bimba chiedeva aiuto per aggiustare la bambola con un braccino staccato; Anna cercava di sostituire la mancanza di parole con i fatti e, con i gesti che io ben conoscevo, aveva già risposto.

La risposta si materializzò dinanzi a me: mia sorella si alzò, andò a prendere uno dei vostri bambolotti e, con molto garbo, ruotò il braccino e lo sganciò dalla spalla; molto lentamente per consentire a Dolly di vedere, lo appoggiò nell’incavo della spalla e spingendo lo reinserì. La bimba ebbe così la risposta voluta, conobbe come era successo l’incidente e come si era potuto riparare. Allora compresi che Anna aveva comunicato con sua figlia mostrandole la realtà in tutti i suoi passaggi, partendo dall’oggetto e mostrandole il suo uso con l’esempio.

Dolly sapeva più cose che parole, a ogni oggetto era in grado di associare il suo utilizzo e la zia aveva fatto il resto. Con l’inizio della scuola avrebbe assorbito la padronanza della scrittura e quindi assegnato a ogni oggetto il suo nome.

E difatti arrivò il tempo della scuola.

Vi vestimmo allo stesso modo: grembiulino bianco con fiocco rosa, stessa cartella, ma scegliemmo di farvi mettere in banchi diversi per evitare di distrarvi, chiacchierando tra di voi.

Il primo giorno vi accompagnai io, con il consenso di Anna ; non potendo farsi capire da tutti, lasciava a me le relazioni esterne, mentre lei si occupava di più della gestione della casa.

Con l’inizio della scuola, si apriva per voi un mondo nuovo fatto di simpatie, di legami affettivi ma soprattutto di confronti. Quando si è piccoli c’è una continua attenzione a quello che hanno gli altri, dal vestito ai quaderni, dai giochi alla merenda ma, soprattutto, agli affetti. Non trovare il paragone soddisfacente significava reputarsi ‘diversi’, chiudersi in se stessi.

La totale assenza delle figure genitoriali, seppur da noi giustificata, fece sentire Dolly in difetto rispetto ai suoi compagni e cercò di compensare con l’ostentazione di tutto ciò che gli altri le dicevano di non fare. Così a scuola l’insegnante era costretta a continui rimproveri, questi si sommavano a quelli che subiva in casa per richiamarla ai suoi compiti.»

«Ricordi tante cose dei giorni di scuola di Dolly, ricordi cosa facevo io, come reagivo?» chiesi a mia madre con amarezza inconfessata.

«Imparavate a leggere, sillabando con l’aiuto di disegni, di favole e tutti i pomeriggi controllavo che aveste finito i compiti per potervi fare andare a giocare. Dolly era svogliata e c’era la possibilità di non riuscire a superare l’anno. La sua voglia di studiare era inversamente proporzionale alla sua bellezza che, di anno in anno, assumeva contorni più precisi, fattezze morbide estremamente femminili e tu mi riferivi di essere già oggetto di attenzione da parte dei compagni.

Tu eri esattamente il contrario: una bimba serena, attenta, orgogliosa dei suoi bei voti perché raggiunti con sforzo e voglia d’imparare. Essere redarguita la rese insofferente ai consigli sia miei che di Anna e talvolta, per spirito di contraddizione, faceva esattamente il contrario di quanto le veniva detto.

Ero preoccupata per lei e per mia sorella, poteva vivere con paura o ancor più con sensi di colpa la crescita di sua figlia senza una figura di riferimento dalla quale imparare a rispettare i consigli, l’esempio, ad avere il suo aiuto nei momenti di difficoltà. Poi, trascinata dalla forza quotidiana della vita, smettevo di cercare risposte, ero eccessivamente ansiosa e il tempo avrebbe, forse, risolto tante cose.

Finalmente vi lasciaste alle spalle la scuola elementare, tu meritatamente, Dolly con la costanza e l’aiuto di tutti. Talvolta avevo la sensazione che la nostra attenzione fosse vissuta da lei come una costrizione che aggiungeva diversità al suo sentirsi già diversa.

Allora non c’era molta attenzione ai risvolti psicologici, le azioni non erano filtrate né a livello familiare né a livello scolastico da figure di sostegno, che collaboravano con i genitori a gestire le storture caratteriali. Dolly era totalmente priva di figure di riferimento e questo ne faceva una ragazza tormentata.

Ti amava molto sai Lisa, ma era inevitabile il confronto con la tua normalità, costituita da due genitori presenti, da un rapporto sereno con i tuoi coetanei, dall’avere il rispetto e l’ammirazione di tutti per il tuo bel carattere e la tua educazione. Avevate già le prime simpatie, la voglia di esplorare il mondo al maschile e si stabilivano i primi contatti basati sulla fisicità, intrisi di sogni, tentativi di far prendere vita a tutte le cose moralmente proibite ma, proprio per questo, più cercate.

Dolly era sempre alla spasmodica ricerca di un particolare, di una parola o un gesto diverso, pur di focalizzare l’attenzione dei ragazzi su di lei. Voleva, insomma, dimostrare a sé stessa e agli altri di poter conquistare, nonostante tutto, l’amore e interessare i ragazzi di buona famiglia, quelli che tutte le mamme sognavano di vedere accanto alle proprie figlie.

Ti ricordi quell’episodio spiacevole che vi allontanò per un po’ di tempo e impensierì non poco me e Anna? Io ne fui, involontariamente, testimone, ne vuoi parlare?»

Per la prima volta, mamma mi cedette la parola, aveva voglia di ascoltarmi. Non potei farmi sfuggire l’occasione e fu come obbedire a un ordine il modo come risposi.

«Sì mamma quella fu la prima vera situazione di scontro fra di noi e, per la prima volta, compresi quanto ero fortunata. Avevamo un invito a una festa di compleanno di una nostra comune amica. Avrebbero partecipato anche i due ragazzi che ci interessavano e questo ci faceva porre una grande cura nella ricerca del vestito, dell’acconciatura, per suscitare maggiormente il loro interesse.

Io, allora, come anche adesso, amavo la semplicità, quell’eleganza fatta di interiorità, di gesti, di attenzioni e davo un peso relativo al resto. Tu mi comprasti un vestito; per la prima volta, mi fece sentire una ragazza cresciuta, una piccola donna con una sua identità ben precisa. Mi accompagnavano orgoglio e serenità, ciò ti viene dal sapere che alle tue spalle c’è una famiglia unita, pronta ad appoggiarti e a sorreggerti nelle difficoltà.

Quel pomeriggio stavamo provando, appunto, i vestiti e ci stavamo specchiando con quella vanità femminile che si ha nel compiacersi, vedendosi addosso qualcosa di bello e impegnativo, ci sentivamo adulte.

Ero serena e mi piaceva quel che vedevo. Però Dolly osservava più il mio vestito che il suo, altrettanto bello ma diverso come diverse eravamo noi. La vidi avvicinarsi con una luce sconosciuta negli occhi e, con un gesto violento e convinto, mi strappò la balza che impreziosiva il vestito. Mi sentii usare violenza e non ne capivo la ragione. Più del suo gesto mi offesero le sue parole pronunciate con rabbia e cattiveria: “Con quest’aria di signorina per bene che ti porti dietro, credi basta per conquistare un uomo e tenerselo? Bisogna essere donna dentro e tu non lo sei!”.

Corsi da te e riuscisti, come solo una mamma sa fare, a stemperare il dolore che mi stava procurando la prima vera difficoltà relazionale con una persona amata come una sorella. Non servivano spiegazioni complicate, eravamo ancora giovani e bisognava sedare la rabbia, la voglia di ribattere, la paura fosse vero quello che mi ero sentita dire.

Non volevo andare più alla festa ma tu, conoscendomi, trovasti il modo di farmi notare che avrei fatto una scortesia nei confronti della festeggiata.

Non fu una buona idea perché mia cugina, per tutta la sera, cercò di attirare l’attenzione del mio ragazzo, veramente in imbarazzo e temeva una mia reazione. Veramente offesa, rientrai prima di Dolly e, come ben hai detto, per alcune settimane non le rivolsi la parola, nonostante qualche suo tentativo di approccio. Mi sembrava di non averla mai conosciuta veramente. Quello che aveva fatto metteva in discussione tutte le cose in cui avevo creduto e la sua volontà di ferirmi era, per me, inaccettabile.

 

Caterina Guttadauro La Brasca

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Andrea Giostra

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