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Romanzi da leggere online: il sesto capitolo di “La voglio gassata”

sabato 8 Giugno 2019
Tiziano Baravelli, «Fuoco sacro», cm. 140x95, olio su legno
Tiziano Baravelli, «Fuoco sacro», cm. 140x95, olio su legno

La 23ª puntata della rubrica “Romanzi da leggere online”prosegue con il sesto capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca,La voglio gassata”.

 

CAPITOLO 6°

La mattina del primo dell’anno dovevo, girata di spalle, tirare la mia ciabatta sull’uscio.

Se quando ricadeva, la punta era rivolta verso fuori mi sarei sposata. Mi divertivano queste cose e mi facevano sentire più vicina a lei.

Io e mia madre siamo anche state compagne di viaggio. Certi anni in estate la famiglia si divideva. Papà e mio fratello andavano in montagna, io, mamma e Cristina a Parigi.

Parigi: la città dei sogni, degli innamorati. Tutti almeno una volta dovrebbero conoscerla.

Il lungosenna, l’aria plumbea e da lontano, le note della vie en rose, mentre due innamorati, sotto lo stesso ombrello, si giuravano amore eterno. Non era una città per tre donne sole, l’amore si viveva ovunque a Parigi: si dipingeva a Montmartre, si passeggiava a Pigalle, si trasgrediva anche; inteneriva se due giovani percorrevano il lungosenna dandosi la mano. Ci si sentiva amati anche senza nessuno, tanto l’aria era impregnata, profumata di sentimenti che, come una nuvola avvolgevano Parigi, rendendola la città dell’amore. Quando si ritornava a casa, eravamo tutti più distesi, e i sogni si lasciavano alle spalle perché la realtà incombeva. Per mia madre io non facevo mai abbastanza, tante volte mi sentivo prigioniera dell’amore per mio padre e dell’intransigenza di mia madre.

Chiedeva sempre a me, glielo facevo notare e la giustificazione era: «Non lo faccio con tuo fratello perché ha famiglia, ha i suoi pensieri e le sue responsabilità.»

Io in silenzio mi dicevo: “ma siamo figli tutti e due!” Forse Carlo non si immedesimava nel ruolo di figlio e di fratello proprio perché sempre non coinvolto, quasi protetto dalla sofferenza. La scuola della vita deve essere frequentata da tutti con serietà, senza differenze di programma perché accadrà, lungo il suo percorso, di dovere affrontare le difficoltà, la solitudine, la malattia e senza nessuna conoscenza ci si sentirà smarriti e soli, con tante macerie attorno. Se così è stato, mia madre ha sbagliato e, seppure in ritardo, credo che se ne sia resa conto.

Quando la mia rabbia straripava, mi dicevo: “soffri ora, è meglio, soffrirai meno quando se ne andrà”.

Quante sciocchezze si pensano in preda alla rabbia!!

Ho capito dopo che i suoi moniti miravano a farmi capire quanto sia difficile conquistarsi la vita, tenere unita la famiglia e dopo averla conquistata, affrontare il dolore di perderla.

Vorrei con una moviola, tornare indietro a quel giorno, mentre saliva in ambulanza, mi disse: «Pensami.»

Lì per lì credetti che mi stesse imprigionando di nuovo.

Voleva vivere nel mio pensiero e farmi confrontare continuamente con la donna che lei aveva voluto che io diventassi.

Quando il tempo cicatrizzò le ferite, ero più lucida, e mi resi conto che non mi aveva chiesto poi tanto per avermi messo al mondo e tentato di insegnarmi a vivere.

Non feci nulla, e lei se ne andò, io restai con i suoi occhi piantati nei miei e un groppo nella gola.

Era un ti voglio bene che non era riuscito a dire.

Mi dà serenità pensarli insieme, senza ombre, preoccupazioni e sicuramente consapevoli che l’amore vero c’è, e se si ha la fortuna di incontrarlo, si deve proteggere.

Fai bei sogni, mamma, non mi hai mai detto quanto ti è costato vivere, io davo per scontato il legame tra te e papà, invece non è così.”

Ogni mattina ognuno di noi indossa il proprio mondo con i suoi affetti, le difficoltà e la gioia, facendoli rivivere tutti i giorni, fino alla fine.

Finché c’era papà, tutti stavamo bene per aiutare lui, non c’era tempo per crogiolarsi nei propri malesseri.

Quando lui partì, non avevamo più nessun accudimento, e il nostro corpo ci chiese più ascolto, mostrò la sua debolezza, allentò la tensione di tanti anni di precarietà, e ci mise dinanzi alla sua fragilità, alle sue malattie, per tanti anni sopite.

Mio fratello c’era già quando io sono nata: ha otto anni più di me, ma eravamo, come ho detto prima, uno estraneo all’altro.

Sembra impossibile perché avevamo gli stessi genitori, vivevamo assieme quella vita strana di un colore solare, ma con dei buchi neri, in cui sprofondavamo quando papà era in ospedale e noi due eravamo affidati a famiglie diverse.

Talvolta sento dire che i fratelli più grandi sono protettivi, gelosi delle sorelle più piccole.

Sinceramente non so se questo mi è mancato, ma di certo nessuno di noi due ha fatto nulla perché le nostre vite si incontrassero, per raccontarci.

Si, forse mi è mancato un fratello con il quale confidarmi, da presentare con orgoglio ai miei amici, al quale chiedere le risposte a tante domande su quei periodi che ci rapivano papà e mamma e allontanavano me e lui.

Col tempo, da grandi, rimasti senza genitori, abbiamo dovuto guardarci e forse, per la prima volta, ci siamo accorti del colore dei nostri occhi, di quante parole erano scivolate dentro come bollicine di acqua gassata.

La sentivi frizzare nel breve tragitto dalla bocca alla gola e poi non sapevi quale strada prendesse.

Talvolta mi sono chiesta:” perché mi sono lasciata fermare? Perché abbiamo vissuto separati da un muro che ci ha reso quasi estranei?

La risposta era sempre: perché siamo diversi, io collezionavo sogni e lui costruiva la sua normalità, consapevole che accontentarsi era il segreto per vivere una vita serena. La Vita è sempre una scelta ma non sempre consapevole. Si sceglie per vivere un sogno, per scappare da una brutta realtà, per darsi delle opportunità o più semplicemente perché non farlo da apprensione ai genitori, e si finisce con il crederci incapaci di affrontare la vita. Alla base di una scelta deve sempre esserci la consapevolezza di ciò che si vuole e la disponibilità a rischiare. La rinuncia non ci fa crescere, ci condanna alla normalità. Solo chi osa conosce bene sé stesso e assapora la forza e la gioia del traguardo raggiunto.

Ci siamo sempre rispettati, facendoci mancare le belle litigate, le ripicche, le gelosie, la trama di un rapporto tra fratelli; e poi, per me, c’era Cristina, mia cugina con la quale condividevo tutto.

Nulla di serio a quell’età, ma tanta voglia di divertirci, volevamo movimentare la nostra vita, non costruirla seriamente.

La prima vacanza fu a Riccione, la vera prima libera uscita.

L’avevamo aspettata tanto che trovarci nella capitale adriatica del divertimento ci sembrò impossibile.

«Cristina, come sto?»

La sua risposta: «Sei perfetta, ma soprattutto sei così contenta che i tuoi occhi trasudano curiosità come nei bambini.»

Eravamo habitué della discoteca, luogo di ritrovo, di incontri, le prime tenerezze, ma su tutto prevaleva la voglia di divertirci.

Programmavamo un’altra uscita quando, guardandoci sbalordite, con le mani in tasca, affiorò sulle labbra la stessa frase: Abbiamo finito i soldi.

Dapprima panico vero. «Cristina, io dissi, non possiamo rientrare nè tantomeno dirlo a casa.»

Cristina, determinata: «non se ne parla nemmeno, dobbiamo guadagnarci un po’ di soldini.»

Camminavamo sull’affollato lungomare, pensierose al punto da sentirci apostrofare da due ragazzi: «Che occhi pensierosi e che aria seria! Come mai, è finita la vacanza e dovete rientrare?» disse uno dei due.

Io risposi: «Senza saperlo, ci sei andato vicino. Non vogliamo ritornare a casa, ma è quello che dovremo fare se non troviamo un po’ di soldini

Erano ai primi approcci con la vita, e la gioventù dava loro il coraggio di osare, assaporavano la difficoltà della conquista. Da giovani un no non si accetta facilmente, anzi stimola maggiormente a riprovare. Infatti ci dissero:

«Beh, siete fortunate, in cambio di 5.000 lire dovete fare per noi solo una telefonata. Vogliamo ottenere l’informazione dell’albergo che ospita una certa ragazza.»

La chiamata servì ai ragazzi che ebbero l’informazione voluta e a noi per continuare la nostra prima vacanza.

Quanta è bella la giovinezza, quando a spazzare una nuvola basta un alito di vento!

Finita la vacanza al mare, ritornammo a Montecreto.

Papà, felice perché con i suoi occhi indagatori metteva a nudo ciò che non dicevamo, e capiva che era cominciato il nostro tempo. Era venuto a prenderci e ci disse: «La squadra calcistica del Palermo è in ritiro proprio nel nostro paesino.»

Sapeva d’incuriosirci e che avremmo fatto di tutto per conoscerli e farci notare. I calciatori per noi ragazze erano lo sport, la sfida, il sogno.

Li vedevamo passare, belli, atletici, consapevoli di suscitare la nostra ammirazione.

Io e Cristina ne adocchiammo due e diventarono amici.

Venivano spesso a casa nostra a prendere il caffè.

I nostri sorrisi sonori, quando passeggiavamo, scatenavano l’invidia delle altre ragazze che avrebbero voluto essere al nostro posto.

A me e Cristina piaceva conquistare invece di essere conquistate, scegliere il sogno da vivere piuttosto che essere scelte. Era un modo maschile di intendere l’amore come conquista, attivarsi per creare l’incontro, trascorrere del tempo insieme, guardarsi furtivamente, regalarsi il piacere di un contatto, sfiorarsi le mani. Il saluto era sempre un bacio che l’altro doveva pensare fosse amicale e che, invece, era trasgressivo, volutamente trasgressivo, perché doveva acquietare le voglie fino al prossimo incontro. Ma il tempo fuggì e venne quello dei saluti.

Ci scambiammo gli indirizzi e l’amarezza degli addii fu mitigata dalla promessa di rivederci quanto prima. Quell’ estate ancora oggi, è un bel ricordo.

La vita era nostra alleata e mi stava riservando una sorpresa. A settembre, uno dei nostri amici fu ricoverato al Rizzoli per un intervento al ginocchio.

Lo andai a trovare e, vestita di sole e del mio perenne sorriso, entrai nella sua camera: «Ciao, dissi, cosa fai allettato? Bologna è una città che strega, è tutta da conquistare, soprattutto dai giovani. Io la amo molto e mi piace farla amare anche dagli altri.»

«Attenta, questa è una promessa, mi disse, guarda che io sono un siciliano e la parola con i siciliani si rispetta.»

Il mio sguardo fu un guanto di sfida che lui colse, sapevo di solleticare il suo orgoglio maschile e tra me e me, programmavo già i momenti che avremmo potuto vivere insieme.

Poi, rivolgendosi all’altra persona che avevamo quasi ignorato, disse: «Scusami Bruno, ma quando c’è Roberta il resto sparisce.»

Il suo amico rispose allungando la mano per salutarmi: «non posso darti torto, ma puoi riparare subito: presentami.»

Seppi che si chiamava Bruno e uscimmo insieme perché volle accompagnarmi. Che casualità! Ero andata a trovare un amico e ne conosco un altro che fu una vera sorpresa. Era un uomo interessante e seppe tanto di me perché con lui mi sentivo a mio agio. Raccontai dei miei studi finalizzati a viaggiare, del mio amore per la letteratura francese.

Diventavo sempre più estimatrice della bellezza femminile, forse perché era inconscia in me la solidarietà per le donne.

Degli uomini valutavo con attenzione la testa e, come look, le scarpe.

Mi coinvolgevano tanto l’ironia e la vivacità intellettuale mentre le scarpe erano sinonimo di buon gusto e di eleganza.

Bruno aveva proprio queste doti caratteriali e, un giorno, dalla finestra dell’Istituto lo vidi giù ad aspettarmi. Mi ricordo che un artista di strada suonava: Il tempo delle mele. Era il lift motive di quell’estate e io avevo visto il film con Sophie Marceau.

Batticuore, sorpresa piacevole per la sua premura e mi sembrò naturale ripagarlo con il più luminoso dei miei sorrisi.

Mi piaceva sentirlo parlare, era interessante e mai banale, ma l’amore è un’altra cosa.

Presto, per motivi lavorativi, Bruno lasciò Bologna.

Dopo qualche lettera o cartolina divenne, com’è ancora oggi, un ricordo piacevole di un intenso e lontano passato.

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