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Romanzi da leggere online: il quarto capitolo di “Silenzi d’amore”

domenica 31 Marzo 2019

La 13ª puntata della rubrica “Romanzi da leggere online”, continua con il quarto capitolo del romanzo “Silenzi’ d’amore” di Caterina Guttadauro La Brasca.

 

Il dottore capì immediatamente, indossò un cappotto, prese la sua valigetta e, incurante del mio fiatone, fece con me, sempre a piedi, la strada all’incontrario. Le ore successive non saprei descriverle ma mi videro fare di tutto: andare a prendere la legna, ravvivare il fuoco, bollire dell’acqua ma soprattutto pregare. Sapevo del pianto dei bambini appena nati e non sentire niente mi preoccupava. Anna fu stoica perché non potendo dare voce al dolore, volle un fazzoletto da mettere in bocca e, cercando di padroneggiare le contrazioni del travaglio, si sforzava di leggere le labbra e i gesti della zia su quando spingere e quando fermarsi.

Fuori dalla camera io camminavo avanti e indietro mentre aspettavo notizie. Sicuramente al mio posto avrebbe dovuto esserci mia madre ma, usando la pur poca lucidità in quel momento, realizzai che il suo stato attuale avrebbe provocato a lei e a tutti più sofferenza di quella che ognuno di noi, con ruoli diversi, stava vivendo. Non sentendo nessuna voce, chiedevo a Dio di rendere breve quel travaglio, di aiutare mia sorella che dopo tanto dolore, sentisse il primo vagito di sua figlia. Dopo qualche ora, lunga un’eternità, sentii un vagito e tutta la tensione accumulata, straripò in un pianto irrefrenabile.

Venne fuori la zia con il fagottino avvolto in un asciugamano. Me lo poggiò tra le braccia per rientrare subito in camera ed aiutare il dottore mentre prestava assistenza ad Anna stremata nelle forze. Ero immobile e così rimasi per cinque minuti buoni a guardare quel miracolo tra le braccia. Era una bimba ed era bella come una favola. Cominciai a lavarla delicatamente, ero intimidita da quegli occhioni azzurri, sembravano guardarmi. In quel momento, decisi che sarei stata mamma anch’io.

Natale Carta_Maria Malibran
Natale Carta (Messina 1800 – 1888), “Maria Malibran”,97 x 74 cm., olio su tela

Quando tornai con la bimba in camera, vidi mia sorella sudata, sfinita. L’abbracciai dicendole, alla nostra maniera: “Sei stata bravissima, Dolores è bellissima”. Guardando mia nipote addormentata accanto ad Anna, pensai con dolore che quella bimba non avrebbe mai conosciuto la persona a cui somigliava tanto nei lineamenti del viso. Io e la zia ci sentivamo svuotate. La paura, l’ansia dell’attesa, il coraggio di Anna avevano lasciato il posto a un senso di liberazione e di stanchezza, questo ci impediva di pensare ad altro. La sera prima eravamo in tre, la mattina dopo ci ritrovammo in quattro.

In un momento, rimaste finalmente sole, abbracciai la zia con tutto il trasporto di cui ero capace, volevo capisse che quel gesto era un atto di riconoscenza infinita verso di lei. Quella notte, ci era stata vicina proprio come una madre. In quel momento credetti di capire il grande valore della vita. Affrontammo insieme il problema e io per prima dissi cosa non avrei voluto mai fare: dividerle. Si doveva trovare una soluzione per consentisse di dare a Dolores una sistemazione che non escludesse la presenza di sua madre. Come sempre, fu la zia a ideare un piano che, fin da subito, mi trovò consenziente.

Per tutti, Dolores sarebbe stata la nipote di zia Tiziana, la figlia della cognata Aurora morta nel darla alla luce. Non mi piaceva arrotolare la verità in un foglio di finzione, approfittare della loro bontà per avere un avallo al nostro progetto, sarebbe stato semplice dire tutto ma con quali conseguenze? Tornai a casa lasciando dietro di me un trio già armonioso, una casa dove c’era profumo di saggezza, esperienza di donna e l’innocenza misteriosa di una nuova vita. Come facevo da sempre, mi fermai da mia madre, dove trovai anche Emma. Le faceva compagnia e le cuciva un vestito con maestria, conoscendone i gusti, le preferenze e mi piacque essere lì ad assistere alla prova dell’abito. Era stato da sempre per noi un momento di gioco indossare gli abiti in prova per fare poi eventuali modifiche: ci si sentiva più belle con un nuovo vestito desiderato, imbastito sul nostro corpo, facendolo diventare un doppione di quello visto sulle riviste addosso a una diva famosa.

Erano quelli i nostri momenti di celebrità, di confronto, di acquisizione di coscienza della bellezza del proprio corpo; creare il vestito da noi, artigianalmente aggiungeva pregio a tutto quanto. Allora, le ragazze di norma non studiavano, imparavano il taglio e il cucito da sarte, che facevano questo lavoro da tanti anni. Così il nostro ingegno diventava per la famiglia una fonte di risparmio. Mi sentivo in colpa dinanzi a mia sorella per averla tenuta all’oscuro di tutto e, parlandole, tenevo gli occhi bassi per non darle modo di leggermi dentro. Ci vuole un grande coraggio a non dire la verità. La tua bocca pronuncia quello che comandi ma le mani, la postura obbediscono al nostro sentire e rivelano, a un occhio attento, la tua bugia.

«Lisa, ho cercato di immaginare l’emozione che avrebbe dato a me e alle mie sorelle confezionare il tuo abito da sposa. Ne parlavamo sempre ma non ebbi il coraggio di chiedertelo, pensavo avresti detto di sì per non dispiacerci. Avevo anche conservato il mio abito da sposa. Forse avresti potuto avere voglia di sposarti con lo stesso abito indossato da me. Ora ho finalmente capito l’importanza che ha nei rapporti non lasciare cose non dette. Forse aver dovuto tacere con tutti tante verità della vita di Anna mi ha reso più introversa e timorosa dei pareri degli altri. Emma era la più estroversa e, in tante occasioni, mi salvarono i suoi sentimenti e la sua necessità di raccontarmi di suo figlio Filippo, sapendo quanto tenevo a lui.»

Negli ultimi tempi raccoglieva tutti gli articoli relativi ai suoi concerti per farne un album e regalarglielo. Ma, proprio grazie a questa sua intenzione, si accorse che le arrivavano meno locandine, gli articoli sulle riviste specializzate e sui giornali erano diminuiti. Riuscì a contagiarmi con la sua preoccupazione perché entrambe sapevamo che il mondo del successo è effimero, può impadronirsi della vita di una persona, facendone qualcuno, ma può anche farla tornare a essere nessuno. La tranquillizzai promettendole che, messo piede in casa, per prima cosa l’avrei chiamato e glielo avrei riferito. Ma ancora una volta, non mi piacevano queste mediazioni, se fossi diventata madre sarei stata sempre io a discutere con i miei figli, in ogni evento che necessitasse di un confronto, di un consiglio o di un rimprovero. Dare la vita non ci dà solo dei doveri ma anche dei diritti inalienabili.

Mi piaceva parlare con mia sorella ma era tempo di tornare, non volevo impensierire mio marito. Ero fortunata ad avere la possibilità di viaggiare in macchina. Eravamo ancora in pochi ad averne una. La distanza tra il mio paese d’origine e quello dove vivevo da sposata era di circa venti chilometri. Il primo era sul mare e l’altro in collina. Il primo era ricco di agrumeti e l’altro di uliveti. Con eccezione di pochi fortunati, le distanze si coprivano a torso di mulo o a piedi. I tempi di percorrenza erano lunghi; si cercava di viverli con pazienza, godendosi il paesaggio e gli imprevisti che potevano capitare.

Durante il viaggio di ritorno pensavo che il dolore, in quote diverse, è presente nella vita di tutti; alcune persone non hanno mai sconvolgimenti nella loro esistenza forse perché il loro rapporto con la vita è pari: mai forti gioie, mai grandi dolori. Era una bella vita? ‒ mi chiedevo ‒. Può darsi ma non si addiceva al mio temperamento. Io amavo vivere con quella quota di rischio che sorprende, spaventa ma redime anche dalla normalità, facendoti sentire unica.

In quel momento, nella nostra famiglia il dolore, più o meno mascherato, era presente nella vita di tutte le donne e ne eravamo consapevoli, ad eccezione, fortunatamente, di mia madre. Mentre guardavo l’asfalto sparire sotto l’incedere delle ruote, pensavo all’esistenza di un percorso anche  per il dolore: da bambina hai paura solo all’idea di poterlo conoscere, da donna ci fai i conti viso a viso con la maternità, da vecchia non se ne ha più paura perché  è diventato un compagno di viaggio.

Da giovani non ci si sofferma mai sul valore del passato, considerato un pianeta lontano, appartenente solo agli anziani, crescendo si scopre il contrario. Il passato diventa l’accettazione di sé, di quello che la vita ci ha dato o ci ha tolto, delle nostre decisioni, di quello che ci è stato insegnato. Molti dicono di disconoscere il proprio passato ma dimostrano solo di esserne posseduti, soprattutto quando è stato negato un futuro. Pensai improvvisamente a mio marito, mi stava accanto in silenzio, approvando le mie scelte e non chiedendomene mai la ragione: mi ero mai chiesta se gli procuravo sofferenza? Si sarà fatto delle domande e avrà trovato delle risposte?

Decisi che, appena possibile, gli avrei raccontato tutto di Anna e avrei anche cercato di non essere, come avevo fatto fino ad allora, una moglie a metà, di pianificare con lui il nostro futuro, cui avevamo pieno diritto. Immersa nei pensieri non mi ero accorta di essere già arrivata. Ritornare a casa mi dava sollievo. Per tutta la giornata avevo parlato di problemi, di come risolverli e questo mi faceva sentire provata. Salutai mio marito, mi aiutò a scendere dalla macchina; le sue premure mi facevano sentire al centro dell’attenzione e di questo io avevo bisogno.

Nel pomeriggio inoltrato, come promesso a mia sorella, telefonai a Filippo e gli chiesi la ragione per cui aveva rallentato le sue esibizioni. A queste mie preoccupazioni Filippo fece eco con una grande risata che mi scaldò il cuore: «Stai tranquilla, zia − mi disse rincuorandomi − ho chiesto io al mio agente di rallentare il ritmo perché volevo venire a trascorrere il Natale con voi. Sei contenta?».

Ero, ovviamente, felicissima e altrettanto lo fu mia sorella quando glielo riferii. Ogni suo ritorno era un piccolo evento: tutti lo avevano coccolato da bambino e quando ritornava ognuno rivendicava la sua quota di affetto. Chiedevano impazienti del suo lavoro, lo chiamavano ‘maestro’ e lui non si negava a nessuno. Avevo fatto pulire e accordare il pianoforte attorno al quale ci riunivamo ad ascoltare.

La sera, dopo cena, mio marito mi chiese se ero stanca. Sapeva sempre intuire i miei stati d’animo, come se mi conoscesse da sempre. Trovava le parole giuste per dissipare i miei dubbi e favoriva gli incontri della famiglia per alimentare l’unione familiare. Non potergli dire la verità mi pesava ma motivai il mio stato d’animo con la preoccupazione per la salute di mia madre.   La musica sacra e popolare è il sottofondo ideale per vivere lo spirito del Natale. Secondo mia madre Filippo accontentava tutti, suonava dall’aria più famosa ai motivetti per ninne nanne. Suo nipote non poteva però sapere che fra le sue future ammiratrici si era aggiunta, da poco, una piccola donna, cosi bella che era un dolore non poterla mostrare a tutti.

Se Filippo aveva in programma di tornare a casa, si sarebbero trovati, tutti insieme, a festeggiare il Natale come sempre. Ogni Natale poteva essere l’ultimo per la nonna e questo era un motivo in più per starle vicino, coprirla di attenzioni come se i loro ruoli si fossero invertiti. Questa verità era nell’aria, talvolta respirarla li rendeva muti, dava loro la misura di quanto sia effimera la nostra permanenza in questo mondo. Da bimbi, tutti associamo ai genitori l’idea dell’eternità. Il ritorno di Filippo avrebbe reso raggiante Emma perché, suo malgrado, si sarebbe trovata a presenziare a qualche cena  in omaggio alla bravura del figlio. Erano momenti di grande mondanità a renderla felice.

Una sera, mentre Emma con cura si dedicava allo smoking che avrebbe indossato Filippo, in una tasca trovò una foto con in calce, un pensiero affettuoso. Era una bella ragazza, di nome Françoise, dal viso dai tratti aggraziati e due occhi dai quali traspariva una gran pulizia. Oltre alla dedica c’era un indirizzo. Emma, saggiamente, lo annotò su un foglio e lo conservò gelosamente. La foto era stata scattata presumibilmente l’anno precedente, durante un concerto di entrambi a Vienna. La dedica, scritta manualmente, era molto sentita ed Emma non resistette alla tentazione di annotare la frase che diceva testualmente: «L’Amore è musica perché la musica è mettere insieme le note che si amano

A Filippo non sfuggì, durante la sua permanenza, come la nonna cominciasse a estraniarsi dalla realtà, alcune domande la mettevano in difficoltà. Si intenerì molto e una sera, suonò solo per lei, seduta accanto al pianoforte. Quando Filippo le consegnò il suo regalo, ci fu un momento, rimasto scolpito nella nostra memoria, perché il cammeo che la nonna teneva in mano era identico a quello perduto e nella sua mente, già scomposta, si sentì al centro dell’universo. Abbracciò Filippo, il quale era così tanto felice di averla emozionata.

Trascorso il Natale – continuò mia madre − la casa della nonna si svuotò. Prima di ritornare a casa mia, salutai mio nipote e volli accertarmi dei suoi impegni che sicuramente l’avrebbero tenuto distante per molti mesi. Filippo aveva in agenda una serie di concerti in tutta Europa ma, in buona parte, ancora da confermare. Rimasi perplessa a quell’ultima parola di Filippo perché mi ricordò quel vuoto registrato da Emma nella raccolta degli articoli di cui era protagonista suo figlio. Che ci fossero dei problemi e non ne parlava per non preoccuparci? Non riferii niente a mia sorella Emma. Pensai di chiamare invece la fidata Nannina. Era la governante. Da molti anni si prendeva cura della casa e di Filippo che considerava come un figlio”.

Ci sono persone capaci di amare i figli degli altri come fossero propri, perché hanno una grande riserva d’amore e soprattutto uno spiccato senso del dovere. Nannina era così la mamma ‘fuori sede’, come la definiva Filippo e lui era, sicuramente, il figlio che lei non aveva avuto. Era una donna sola, rimasta vedova ancora giovane e si era guadagnata da vivere facendo svariati lavori. Emma, quando Filippo si trasferì a Roma, la contattò su indicazione di una parente di Nannina, che viveva in paese. La scelta, nel tempo, si rivelò ideale. Era una brava donna e si era presa a cuore la situazione di Filippo. Ormai conosceva tutto di lui e lo accontentava nei gusti ma soprattutto si preoccupava dei suoi bisogni e della sua salute. Tutti noi la consideravamo una di famiglia e mia sorella Emma la invitava sempre a venire con Filippo nei suoi rientri in famiglia.

In macchina riflettevo: “ognuno di noi, in quel Natale appena trascorso, aveva manifestato una forzata allegria forse per esorcizzare la pesantezza della vita; la mancanza di persone care scomparse e l’incognita del futuro che ci aspettava”.

Io − proseguì Mariù −avevo giustificato la mancanza di Anna e della zia Tiziana e, nel farlo, mi ero sentita appesantire il cuore. Di contro ma, ancor più della loro assenza, si sentiva la mancanza di qualcuno ormai solo dentro di noi. Mi mancava l’appoggio di mio padre, la sicurezza che mi dava la sua mano quando prendeva la mia; il suo sorriso rassicurante trasformava ogni mio pianto in un volo tra le sue braccia.

«Capivo il sentire di mia madre – disse Lisa − chi aveva detto che il tempo aiuta a dimenticare? Era passato qualche annodalla perdita di mio padre e il bisogno di rivederlo era sempre tra le mie voglie più imperanti. Da lui avevo imparato le cose più importanti nella vita: la sacralità della famiglia; non venire meno ai propri doveri; apprezzare quello che si ha…

Il nostro rapporto era stato speciale e adesso mi mancava. Mi tornarono alla mente immagini mai dimenticate: quando, seduto sulla sedia a sdraio, avvolto nel suo plaid, sonnecchiava, e io andavo a dargli un bacio. I suoi occhi rimanevano chiusi, ma accennava un sorriso, mi faceva capire che gli piacevano le mie attenzioni. Mi mancava anche la sua tristezza perché, in un certo qual senso, mi apparteneva. Io sapevo quanti pochi sogni era riuscito a realizzare.

Il suo ricordo mi consumava, eppure era un punto di riferimento per me, anche adesso che non c’era più ed annullava ogni ricordo negativo. Mi mancavano anche i suoi silenzi, le sue sgridate, anche quelle di cui non avevo capito la ragione. Quante volte avrei voluto un confronto ma lui non riusciva a rivelarsi, piuttosto agiva con sguardi, con occhiate delle quali bisognava capire il senso senza chiedere mai.

Quegli atteggiamenti appartenevano non solo a lui, ma a una intera generazione educata a nascondere le emozioni piuttosto che a dichiararle. Nel silenzio c’era la sua voce. Il suo silenzio sembrava creare meno conflitti e dare intimità alle emozioni.  Si cibava della voce della natura, della solidità della sua terra, dei contenuti dei libri che aveva letto. Pensavo, e pensarlo mi intristiva, di non avere qualcuno con cui condividere le sue debolezze, persino in famiglia dove non l’aiutava, di sicuro, essere il minore dei fratelli e con genitori venuti a mancare troppo presto.

Avrei voluto rivivere anche solo un giorno con lui, andare a cavallo in campagna, durante la raccolta delle olive e per la transumanza, quando curiosa, gli andavo dietro mentre lui lavorava. Lui sembrava arrabbiarsi ma in fondo era contento di raccontarmi la sequenza dei lavori che si facevano nel caseggiato, dove gli uomini sembravano accomunati dal calore dei loro fiati e dalla complicità che, da sempre, li rendeva solidali l’un l’altro. Quando mio padre era troppo indaffarato e non poteva prestarmi attenzione, io mi perdevo per ore a cercare i maggiolini sulle foglie dei gelsi e delle fragole, oppure andavo dietro a Calliope, la tartaruga con il doppio dei miei anni.

Nella masseria lavoravano, tra mezzadri, coloni e braccianti, almeno venti persone e, per la raccolta delle olive, si affiancavano anche le mogli e i figli. Le donne allungavano grandi ‘tende’ sotto gli alberi mentre gli uomini salivano sugli alberi per strattonare i rami, facendo cadere le olive. I ragazzi riempivano i sacchi e i bambini riempivano le ceste con quelle cadute fuori dalle tende. Anch’io partecipavo a quest’atmosfera che per me era gioiosa. Mi rotolavo nelle tende e tutti, sollevandole, mi facevano fare le capriole. Che festa la sera attorno al fuoco!

In padelle, annerite dai carboni, pulite sommariamente, si cuocevano frittate di patate e di cipolle mangiate con le mani, accompagnate da pagnotte che le donne avevano impastato e infornato la mattina. Quando era ora di mungere le vacche, correvo dietro ai bovari che uscivano dalle stalle con secchi stracolmi di latte fumante. Mi attaccavo al secchio per berne qualche sorso, facendolo arrabbiare e imprecare di non farlo, perché si buttava per terra tanto latte. Nella stalla, mi attardavo sempre accanto a Nerina e Bianchina, due bellissime mucche da latte, chiamate cosi per i loro colori.

Il feudo era anche territorio di caccia e tante volte, sentendo qualche sparo, piombavo letteralmente addosso a mio padre per la paura. Lui mi prendeva in braccio e mi calmava, dicendomi: “Quelle cartucce non uccidevano uomini ma la cacciagione che serve per fare il sugo”. La sera le persone si radunavano attorno al fuoco e vi rimanevano finché non si spegneva l’ultimo tizzone. Qualcuno strimpellava una vecchia chitarra, qualcun’altro raccontava qualche storia, anche se le parole sfuggivano dalle labbra indistinte, per aver ecceduto con il vino.

Il loro viso era invecchiato dal sole e dalla fatica, qualcuno tirava fuori dalla tasca del tabacco e delle cartine, diventavano subito sigarette rigorosamente distribuite tra tutti. L’accendino era sempre un tizzone del fuoco non ancora spento. Il buio raccoglieva tutti in un unico abbraccio. I più vecchi leggevano nel cielo il tempo che ci sarebbe stato il giorno dopo, i più giovani vedevano nelle stelle il volto delle loro donne che li aspettavano a casa. La stanchezza era tanta e il sonno vinceva tutti con l’ultimo mozzicone mentre scivolava, ormai spento, dalle labbra annerite per l’uso continuo del tabacco.

Io mi addormentavo tra le braccia di mio padre e lui mi copriva con la coperta, l’avremmo utilizzato anche per la notte nel letto rimediato. La notte, per me, già da allora, era magia, un mondo popolato dal silenzio e dal buio che permetteva di mettere a nudo se stessi. Come mi avevano portata lontano quelle immagini ritrovate nella memoria! Non avrei mai incontrato nessuno, di questo ero certa, come mio padre, un uomo che non aveva mai visto uscire la menzogna dalle sue labbra. Custodivo ancora le sue parole come perle nello scrigno del mio cuore».

Mamma Mariù aveva ascoltato le mie parole; quei sentimenti e ricordi erano come suoi. Anche a lei mancava tanto suo marito, l’unico riuscito sempre a rasserenarla con suadenti discorsi. Andare indietro con la mente non le creava dolore, al contrario, faceva emergere una parte della sua vita. Stimolata dalle mie parole, le faceva ritrovare sensazioni gradevoli. Mamma cercò di mettere parole tra i ricordi che l’avevano rapita al presente e l’esigenza, sentita come un dovere, di pianificare il futuro, pieno di incognite di Anna e Dolores che, in quel momento, erano al centro di ogni suo pensiero.

Intuivo quanto ancora fosse vivo il passato nella vita di mia madre, per questo le diedi tutta l’attenzione che il suo raccontare meritava. In lei riaffiorava un senso di colpa per non averlo, da subito, condiviso con il marito, persona leale e sincera. Ascoltava con assoluta attenzione la situazione della zia Tiziana, alla sua età, aveva dovuto accettare per evitare alla piccola creatura di andare a finire in un orfanotrofio. Il suo disagio però era stato superato quando, infine, ne aveva parlato e il marito si mostrò molto toccato dalla storia e la confortò dicendole che aveva fatto bene a occuparsi di Anna. Poteva contare, dunque, sul suo aiuto come sempre e nelle sue parole dette in tono tranquillizzante.

Mamma continuò: «La vita riprese per tutti con i suoi alti e bassi. Nonna Lia si allontanava ogni giorno di più, al punto che talvolta faceva fatica a riconoscerci. Stavo perdendo mia madre proprio quando io sentivo prorompente la voglia di diventarlo. Questa considerazione mi fece pensare alla mia realtà di donna e moglie e decisi di abbreviare i tempi. Una sera tirava un vento così forte che sembrava bussasse a tutte le porte, mi girai dalla parte di mio marito e appoggiando la mia testa nell’incavo tra la sua spalla e il mento gli confessai: “Mi piacerebbe avere un bambino che avesse  la tua pazienza e la tua bontà.”

Lui rispose: “E a me che avesse i tuoi occhi e il tuo sorriso.” Incoraggiata, stringendomi ancora a lui continuai: “Penso che un figlio sia la continuazione di noi stessi. A cosa serve lavorare, accumulare, stancarsi, se non si ha un progetto di vita in cui investire e qualcuno che possa continuarlo quando noi non saremo in grado di farlo?”.

Beppe, mio marito, mi sollevò il mento e, guardandomi intensamente, mi disse: “Sì, dovrà avere i tuoi occhi perché sono la mia luce.” Ci sono momenti in cui ti senti capace di provare tutto l’amore del mondo, quello fu uno di questi. Lentamente cominciai a spogliarlo. Il mio cuore aumentava i battiti. Mi chiesi quale incanto era quell’uomo per me se aveva il potere meraviglioso e raro di farmi sentire vera. Con questa consapevolezza, scivolai sotto di lui assieme alla mia camicia da notte. C’eravamo solo noi, era come se un impulso irrefrenabile ci facesse catturare il mondo racchiudendolo dentro un pugno serrato. Sentivamo tutta l’intensità di essere diventati una sola persona. Quella notte dentro di me nascesti tu Lisa…».

Tutto il vissuto narrato da mia madre mi coinvolse, ma questa frase, in particolare, finalmente mi sembrò sancisse la mia presenza fisica nella sua storia. Ora avrei sentito cose da vissute, sofferte, amate: egoisticamente volevo che i racconti della mia vita fossero altrettanto ricchi di particolari e temevo che, se li avesse tirati fuori tutti d’un fiato, come aveva fatto narrandomi delle sue sorelle e di sua madre, forse le sarebbero sfuggiti dei particolari per me tanto importanti. Avevo bisogno di sapere perché il nostro rapporto, a volte, era stato segnato da una distanza che sembrava incolmabile. Convinsi, così, mia madre a riposarsi qualche ora. Dopo aver bevuto una buona tisana, ci saremmo riposate tutte e due, l’una accanto all’altra. Non chiusi tuttavia gli occhi, non volevo sprecare neanche un minuto del tempo concessomi per stare con lei.

Guardandola, pensai a quel suo mondo sommerso che stava emergendo, rendendomi chiare tante cose e facendomi sentire orgogliosa di questa donna la quale, oltre a essere stata mia madre, era stata anche madre di sua sorella e di sua nipote. Ora sapevo che era stata senz’altro una donna coraggiosa. Amare gli altri è possibile ma decidere per loro vuol dire assumersi delle responsabilità e lei lo aveva fatto più di una volta.

Mia madre aveva capito una grande verità: a volte è necessario cambiare la nostra vita prima che ci cambi lei. Anna non aveva gli strumenti per gestire la sua verità, occorreva l’appoggio e la forza di una normalità a lei negata.    Sentivo tintinnare nella mente tante gocce di memoria, facevano affiorare volti, ma soprattutto un nome: Dolly e lo pronunciai a voce alta, quasi senza accorgermene.

«Sì, Lisa, è il nomignolo che desti tu a Dolores ‒ riprese mia madre ‒ come svegliandosi da un sonno mai iniziato. I miei viaggi settimanali per andare a trovare Anna e Dolly e provvedere ai loro bisogni erano tanti. Ripercorrendo ancora all’indietro la sua vita, ricominciò col suo raccontare. La zia soffriva di disturbi legati ai suoi anni, Anna si faceva carico di tutti i lavori, con l’aiuto saltuario di un contadino, vecchio amico della zia, il quale si occupava soprattutto della campagna. Dolores era già un frugoletto biondo, molto vivace, assorbiva anche i pochi momenti in cui mia sorella avrebbe potuto riposarsi.

Si commossero quando confidai di essere rimasta incinta e avevo qualche disturbo tipico dei primi mesi della gravidanza. Un’altra vita faceva capolino nella nostra famiglia e veniva quasi a compensare la fondata paura di perdere mia madre. Anna ben sapendo ciò di cui parlavo, mi abbracciò e prima che traducesse con i suoi gesti ciò che io leggevo nei suoi occhi, parlai io dicendole: «Non preoccuparti per me, a casa tanta gente può aiutarmi, tu qui sei la sola ad aiutare la zia a invecchiare e Dolores a crescere.»

Continuai ad andare, ma tuo padre volle incaricare un uomo di sua fiducia per guidare la macchina e accompagnarmi. Ogni volta rassicuravo la zia e Anna che niente sarebbe cambiato, mentre avrei continuato a provvedere ai loro bisogni, anche se nel mio stato. Anna mi fece capire di voler essermi vicina negli ultimi mesi, ma io la tranquillizzai dicendole che avrebbero avuto sempre mie notizie tutte le volte con Gigi, un nostro dipendente con il quale avrei mandato loro il necessario.

Vedevo il mio corpo cambiare, appesantirsi, perdere le forme e non sempre mi piaceva; poi sentivo, inatteso, un movimento dentro la mia pancia e il mio cuore strizzava per la gioia di poterlo gridare a tutti, mostrare con fierezza quel rigonfiamento. Sapevo che in quel delicato momento avrei avuto accanto a me tuo padre e comprendevo di essere una donna fortunata! L’ultima volta andai a trovarle sapendo che non le avrei viste per un po’ di mesi, avevo portato a Dolores dei giochi colorati e lei, da bambina vivace quale era, li osservava per impararne l’uso.

Mentre Anna si era allontanata per preparare il tè per tutti, chiesi alla zia con quale nome dovevamo farci chiamare da Dolores in presenza d’altri. Stabilimmo come da quel momento Dolly ci avrebbe chiamato: la zia nonna, io e Anna zie. Non era possibile fare altrimenti e questo Anna lo capiva, ma era da immaginare il suo dolore per non potersi fare chiamare da sua figlia con il nome che, di diritto, le spettava. Non riuscire a parlare ed essere condannate al silenzio era terribile ma, per un proprio errore, convivere con il peso di dover tacere doveva essere insostenibile.

Mi chiedevo che diritto avevamo, io e la zia, di farglielo fare. La risposta era sempre la stessa: non c’era altro modo, dovendo tutelare i diritti della bimba, di evitare a mia sorella i giudizi degli altri e alla famiglia la vergogna di un tradimento. La forza delle donne è veramente unica, soprattutto se a scatenarla è l’amore, anche quando la strada è totalmente in salita, ci si ferma un attimo per riprendere fiato e si ricomincia caparbiamente la salita. Quando ci pensavo, mi veniva voglia di correre fuori e ingurgitare aria per mandare giù il bolo che mi procurava tacere con tutti e decidere della vita degli altri. Abbracciai la zia per salutarla e notai la sua stretta meno decisa delle altre volte. Alla mia raccomandazione di aver cura di sé mi promise di risposarsi di più, anzi, ne avrebbe approfittato per lavorare a maglia e prepararmi qualche bella copertina per la mia bimba.

Anna pretendendodi essere guardata attentamente, mi disse che col pensiero sarebbe stata sempre con me. Era dispiaciuta di non potere fare niente, proprio per me che avevo fatto tanto per lei. Saperle serene per me era già tanto e nel viaggio di ritorno avevo intenzione di passare da mamma per salutarla e vedere come stava.

Con fatica sollevai Dolores per prenderla in braccio e, guardandola, pensai che fra pochi mesi avrei tenuto in braccio mia figlia, proprio in quel momento, la sentivo sgambettare dentro la mia pancia.

Passai a trovare mia madre. Nel tempo della visita cercai di fissare nella mia mente ogni momento che avevo vissuto in quella casa con i miei fratelli: le nostre risate; i profumi dei cibi; il pane caldo sfornato appena cotto, le bamboline di pane che non volevamo mangiare tanto la mamma le faceva belle da sembrare vive. Tutto mi ricordava la sua infaticabile operosità, con una famiglia numerosa messa al mondo e cresciuta in un tempo in cui si poteva contare solo sulle proprie braccia e l’abilità delle mani si sposava con la fantasia. Forse per questo le donne erano sempre con il grembiule che toglievano solo la sera prima di andare a dormire.

La sua forza non fu, apparentemente almeno, schiacciata dai due grandi dolori della sua vita: la perdita del figlio per un macabro errore e la malattia di Anna che la privò del la parola e dell’udito. Adesso era come se la sua mente presentasse un unico conto e, non potendo affrontarlo, si rifiutasse di soffrire e vivere. Avrei preferito vederla arrabbiata, stanca, anche malata ma non di quella malattia che la faceva estraniare da noi, le rubava tutto il suo passato e la possibilità di godersi i nipoti. Lei fu contenta di vedermi e mi disse di essere felice di diventare ancora nonna. Io ringraziai Dio di averle concesso quel momento di lucidità necessaria per comprendere quella notizia.

Mi chiese notizie di Anna e la rassicurai sul suo buono stato di salute e così come la zia senza il suo aiuto sarebbe stata in grande difficoltà. Vedendola preoccupata, mi convinsi di aver agito per il meglio nascondendole la verità sull’esperienza subita da Anna. Non era lucida come la ricordavo e mi raggelai quando vidi che appoggiò un tegame sul fornello dimenticandosi completamente di accenderlo. Durante la giornata si alternavano sempre più spesso momenti di lucidità ad altri di assenza dalla nostra vita. Come accade sempre, quando il tempo ci sciorina gli eventi come fossero panni ad asciugare, quelli più grandi sono quelli che si arrotolano più facilmente e a cui prestare maggiore attenzione.

I piccoli inconvenienti fanno parte della quotidianità, finché non ci si trova a vivere un altro vero dolore. Aspettai il rientro di mia sorella per sincerarmi che mamma prendesse le medicine; la pregai di osservarla attentamente e, nel caso si fossero verificati episodi come quello a cui avevo appena assistito con maggiore frequenza, di informare immediatamente il medico. Salutai mia madre con una grande commozione. Quando mi sfiorò affettuosamente con la sua mano la pancia, mi trovai a pensare:” forse quella sarebbe stata l’unica carezza che avresti avuto da lei”.

Ritornai a casa stanca per la giornata emotivamente faticosa che mi ero lasciata alle spalle, ma mi sforzai di rimuovere tutto dalla mente quando mi ritrovai tra le braccia forti e calde di tuo padre. Quelle furono le stesse braccia alle quali mi aggrappai per vincere il dolore e aiutarti a nascere. Fu un parto laborioso e complicato, con un esito fortunatamente felice. Momenti concitati perché non era stato possibile individuare la posizione fetale. Eri in posizione podalica e per agevolare il parto intervennero con un forcipe. Il parto era considerato un fatto assolutamente naturale e veniva vissuto in casa con la positività di avere accanto le persone care ed essere nell’ambiente che ti è familiare, ma con la negatività di incorrere in infezioni o imprevisti quale la necessità di intervenire chirurgicamente.

Seppi, dopo dieci giorni di febbre altissima, quanto io e te rischiammo ma, stremata, ringraziai Dio di averci teso una mano e deposi ogni forza credendo che tutto sarebbe finito. Ho un ricordo nebuloso di quei giorni. Nonostante le poche forze, qualcosa non era andata nel verso giusto anche se tuo padre sfoderava il miglior sorriso che potesse avere quando veniva nella stanza. Mi assistevano in tanti e rispondevano in maniera molto vaga alla mia richiesta di motivi per cui non ti allattavo. Seppi dopo che per potere allattare occorre essere in perfetta salute perché il latte è un conduttore diretto tra la madre e il bambino. Tante cose mi rubò quella febbre: la gioia di poter prolungare la sensazione che tu fossi ancora parte di me e il non aver potuto salutare, per l’ultima volta, la persona dalla quale io avevo avuto la vita.

Da allora imparai a non posticipare ciò che si può fare prima, perché il dopo, pur essendo una pagina dello stesso libro, può non permettercelo. Il mio stato non permise mi venisse detto che proprio in quei giorni mia madre ci aveva lasciato per sempre. Mia sorella Emma aveva fatto fatica a contenere e rispondere alle sue domande sul mio stato, ma c’erano dei momenti in cui i suoi pensieri volavano via dando tregua a lei e a chi con lei viveva una situazione così difficile. Mi lasciò tutto quello che aveva preparato per te: calzini, cuffiette, copertine come aveva sempre fatto per ogni nipote.

Anna e la zia andarono al funerale tenendo per mano Dolores, ancora troppo piccola per capire che accompagnava la nonna verso l’ultima dimora. L’equilibrio di tutta la famiglia risentì della perdita per quanto attesa, perché nostra madre era stata una donna forte, l’elemento d’unione e ci aveva protetto, talvolta, anche da noi stessi. La zia accusò il colpo quanto e forse più di noi, per il profondo legame da sempre esistito fra loro. Quanti momenti belli e meno belli ma erano sempre riuscite a farcela da sole. Da quel momento la casa di campagna perse il movimento e la vita, ovvero tutto ciò per cui quelle donne l’avevano amata. Soltanto Dolores la rendeva ancora viva, con le sue risate, le sue filastrocche storpiate dettate dall’ingenuità, propria della fanciullezza e che si perde sempre troppo presto. Ma il tempo, con il suo cambiar pagina tutti i giorni, richiamò tutti ai loro doveri, alle scelte quotidiane e la loro mente cominciò ad alleggerire il cuore del peso del dolore e a far diventare ricordi tutte le loro più forti emozioni.»

Ero coinvolta dal racconto di mia madre. Già altre volte avevo sentito quei fatti. La mia infanzia e la giovinezza erano state dominate da quelle figure di donne così resistenti alla vita. Ma ero indisposta, benché non lo facessi sempre, dal fatto che mia madre, dalle cui labbra pendevo, non riuscisse a concentrare l’attenzione solo su di me. Ciò, in fondo, mi importava di più, per questo ero tornata, per recuperare un’assenza subita e sofferta.

Mamma si intromise tra me e i miei pensieri inquieti: «Tu e Dolores crescevate con tutti i cambiamenti tipici della vostra età; io e Anna vivevamo ogni giorno senza voltarci indietro per non vedere il prezzo pagato al passato e sperando di consegnare a voi un migliore futuro. Eravate due cugine complementari: una bionda e l’altra bruna, lei espansiva e tu introversa, ma condividevate tutto: giochi, famiglia, gusti. Non davamo mai ascolto alle vostre lamentele, alle ripicche, volevamo entrambe che cresceste con lo stesso affetto e lo stesso attaccamento avuti da me e Anna senza prevalenza di una sull’altra.»

La interruppi: «Anche zia Tiziana era molto legata a noi, a Dolores soprattutto, non è vero?».

«Tanto – rispose mamma, poi continuò – un giorno, approfittando dell’allontanamento di Anna, la zia mi disse: “Mariù, voglio tu sappia che ho deciso di lasciare questa casa e la terra intorno ad Anna, affinché possa avere qualcosa su cui contare. Dolores sta crescendo e i figli costano. Nulla mortifica di più di dover chiedere agli altri nei momenti di difficoltà.

Non mi stupii della sua decisione di lasciare ad Anna quanto possedeva. Molti avrebbero avuto da ridire in merito, ma io apprezzai il suo amore per quella nipote che sentiva più vicina al suo cuore. La capivo, la zia non aveva mai chiesto nulla a nessuno e mia madre aveva sempre pensato a lei con molta naturalezza, approfittando di certe occasioni per mimetizzare lo stato di necessità. Dopo la morte dello zio aveva preferito isolarsi in quel fazzoletto di terra per procurarsi da vivere e, qualche volta, ci aveva fatto dono di frutta e alimenti prodotti da lei. Aveva saputo affrontare con grande dignità i momenti difficili, addirittura trasformandoli in occasioni di generosità e di altruismo.

La tranquillizzai dicendole che approvavo in pieno le sue decisioni e ancora una volta, questo gesto ci dava la misura di quanto bene volesse a tutti. Era tempo di domande anche per Dolores ma il cerchio delle persone alle quali chiedere era ridotto. Anna decise che Dolores, a una età ragionevole, avrebbe saputo la verità ma adesso la giustificazione data era più che valida per accontentare la sua curiosità ed eventualmente difendersi dalle domande impietose che le sarebbero state fatte dai suoi coetanei.

Non riuscivo a immaginare cosa provasse Anna in quei momenti in cui non le era riconosciuto il suo ruolo e doveva giustificare con sua figlia un’assenza non  ancora riuscita a giustificare neanche con se stessa. La bimba, ovviamente, le era legatissima. La chiamava zia ma a me non passava inosservato il suo continuo ricorrere a lei per ogni bisogno e, una volta risolto, l’abbracciava riempiendola  di baci e abbracci, per mia sorella  motivo di vita.

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