“La oggettiva influenza che sui delicati processi ancora pendenti possono avere tali modalità di fare informazione, ci fa dire, con sconforto e amarezza,di trovarci di fronte ad un giornalismo di parte, che accanto alla legittima libertà di informazione e di critica, risulta, però, lontano dal rispettare la libertà e la personalità altrui – quindi anche quella di chi è imputato – come dall’obbligo di rispettare la verità sostanziale dei fatti, in base ai doveri di lealtà e buona fede“.
Lo scrivono gli avvocati Basilio Milio, Francesco Romito e Cesare Placanica – rispettivamente difensori del generale Mario Mori, del colonnello Giuseppe De Donno e del generale Antonio Subranni – in una lettera inviata al direttore di Rai 1 e al direttore di Rete di La7.
“La presente per segnalare con rammarico e indignazione come il 20 e 27 maggio scorso in occasione della ricorrenza della strage di Capaci del 23 maggio 1992, durante il programma di La 7 “Atlantide”, per secondo anno di seguito, sia stato riproposto il teorema di una “trattativa” tra Stato e mafia, oggetto di delicati processi, dei quali uno ancora pendente in grado di appello. Ciò si e’ fatto anche attraverso interventi ed interviste di giornalisti, presunti protagonisti dei fatti e magistrati che hanno diretto le indagini, senza alcun contraddittorio e senza neanche citare la esistenza di prove contrarie, di sentenze passate in giudicato o ancora non irrevocabili, che smentiscono tale teorema“.
L’avvocato Milio – oggi in apertura dell’udienza del processo di appello sulla trattativa tra Stato e mafia, ha chiesto di acquisire la nota. La Corte di assise di appello, presieduta da Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania, si e’ riservata la decisione. La Corte di assise, in primo grado, nell’aprile 2018, aveva condannato a 28 anni il boss Leoluca Bagarella, a 12 l’ex senatore Marcello Dell’Utri, gli ex carabinieri del Ros Mario Mori e Antonio Subranni; stessa pena per Antonino Cina’, medico e fedelissimo di Totò Riina; 8 anni di reclusione per l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno.
Prosegue la nota: “La cosa si è ripetuta l’1 giugno anche con la Tv pubblica, su Rai 1, nel programma “Cose Nostre” dedicata alla ricerca del latitante Matteo Messina Denaro, con la presenza di un magistrato – pubblico ministero in tali processi – il quale ha parlato di un tema estraneo all’oggetto della trasmissione – l’uccisione di Paolo Borsellino – ribadendo le proprie unilaterali convinzioni, anche qui senza alcun contraddittorio né citando prove contrarie, né sentenze passate in giudicato e non, che hanno accertato il contrario e che giornalisti professionisti dovrebbero ben conoscere.