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Una sinistra è ancora possibile: provare a esserci per interpretare le sfide del nostro tempo

lunedì 29 Maggio 2017

Oggi si parla tanto del tramonto ineluttabile di tutte le ideologie, del passaggio dal vecchio modo di intendere la politica al nuovo. Uno svecchiamento del linguaggio e della prassi a favore della velocità di un tempo che corre sulla banda larga e non si ferma a riflettere.

A me questa frenesia incolta mette una tristezza immane. E allora l’esercizio al quale sottopongo la mia intelligenza è la stasi.  Fermarsi sostando tra le pieghe della storia e del presente.

Il nodo teorico è la sinistra e la sua mutazione genetica, intesa come tracollo quasi inesorabile di un tempo che non tornerà più. Come ci siamo ridotti a tanto? Come abbiamo potuto rigettare con forza la storia del Partito Comunista di Gramsci, Togliatti e Berlinguer? Dimenticare le “galassie” alla sinistra del Pci, che sono state spinta propulsiva del nostro ’68 e del ’77 poi? Quella tensione teorica, intellettuale che inevitabilmente portava ad una lotta nei luoghi del conflitto sociale.

Abbiamo smesso di sognare la rivoluzione e non siamo stati capaci di guardare il nostro tempo con le lenti giuste, abbiamo abdicato e lasciato campo libero ad un sistema che ci sta logorando giorno dopo giorno. Nel nostro tentativo di autoanalisi post riflusso, ci siamo smarriti, dimenticando di volgere lo sguardo alla nuova lotta di classe. Che termini obsoleti, distanti, anacronisti. Eppure sarebbe bastato riportare il nostro linguaggio alla contemporaneità. Che definirsi marxisti oggi suona quasi come una bestemmia.

E come Dio ne “La Gaia Scienza”, anche Marx è morto? E soprattutto, chi ha voluto sacrificarlo sull’altare delle politiche neo-liberiste?

Abbiamo dovuto fare i conti con il naufragio del socialismo reale, ma è stata l’umanità stessa ad abbandonare il sogno di una società più giusta. Dopo la caduta del muro di Berlino ci hanno educati al capitalismo con la violenza di arancia meccanica. E ancora prima, la P38, ci faceva alzare la febbre del sabato sera. Inebetiti dai cambiamenti e stanchi delle piazze, i nostri padri, hanno sognato per noi una tranquillità politica, partorendo mostri individualisti ed egoici.

La sinistra ha smesso di sognare e di narrare le storie della sua comunità. Salottiera, con la puzza sotto al naso, incapace di interpretare i reali bisogni del paese ha preferito coltivare i piccoli orti del mero interesse personale, creando quella frattura insanabile che ha dato avvio alla forza dirompente dei populismi.

Il lavoro, l’economia reale, quella dal volto umano, rappresentano lo spazio in cui ancora ci si può ritrovare. L’articolo uno della nostra Costituzione ci narra ancora la sua forza dirompente. Il diritto alla nostra dignità che passa inevitabilmente dal diritto al lavoro. E allora c’è una speranza che va ritrovata nell’opposizione a tutte le forme di sfruttamento e di precarietà esistenziale, ma a patto di reinterpretarla questa umanità bistrattata a partire dalla nostra storia, dal nostro orizzonte teorico che attraversa la denuncia marxista e si muove con la forza della lunga marcia di Mao.

Esiste una comprensione che bisogna mettere in ascolto della complessità, indirizzarla sotto le ali protettrici della soluzione. Aprire una campagna di ascolto è un esercizio difficile, significa innanzitutto provare ad incontrare le vite di quanti oggi non possono sperare in un futuro sereno. E non basta Papa Francesco a ricordarci che abbiamo bisogno di lavoro e non di reddito, non serve guardare nostalgicamente al passato, se quel passato non riusciamo a declinarlo in nuove battaglie. La cultura, la scuola, la nuova povertà, i nuovi proletari, la classe media sempre più povera, una generazione andata in frantumi. Ci vuole un gran coraggio ad abbandonare la propria casa, lasciarla in preda agli invasori. La caparbietà di fare le valigie e prendere un treno che non sai dove ti porterà.

Ma il sogno della rivoluzione è tensione. Ergo, divorziare dal centrismo vuol dire avere il coraggio della pars costruens. Non lasciarsi cullare dal fascino delle posizioni “entriste” da quarta internazionale, ma provare ad essere protagonisti. È una sfida che passa dalla consapevolezza ontologica che la cremastica, di aristotelica memoria ovvero l’arricchimento senza limiti, è un orrore umano che va frenato. Come vanno interpretati i nuovi precariati.

Ecco perché la sinistra in Italia ha il dovere di uscire dal proprio isolamento estatico e provare ad esserci, non come mera testimonianza, ma come soluzione reale, di governo. Riappropriandosi di quei valori che le sono sempre appartenuti.

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