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Non aprite quella pentola…

giovedì 8 Agosto 2019

Cari Liberi Nobili, oggi vi racconterò una celeberrima storia, l’Aulularia, che ha scritto Plauto, un commediografo latino, addirittura nel 194 a. C. Il titolo dell’opera si riferisce all’oggetto principale dello scritto che è una pentola. “Aulula”, in lat., significa, per l’appunto, “olla” ovvero recipiente in terracotta da cui discende la pentola da noi conosciuta in acciaio.

Euclione, il personaggio principale, ha già dei connotati che lo rendono particolarmente facile ai fraintendimenti: oltre a essere un vecchio scorbutico, è anche notoriamente avaro. Egli trova nella sua vecchia abitazione, ereditata dal nonno, una pentola piena d’oro e vive nel costante terrore che qualcuno la scopra e gliela sottragga. La commedia è caratterizzata dalla comicità scaturita da una serie di equivoci legati alla violenza subita dalla figlia, di cui lui non è a conoscenza, e dall’uso del pronome femminile che al povero Euclione sembra essere riferito al suo prezioso tesoro.

Nell’invitarvi a leggerne la trama, che trovate anche su google, vi riporto un altro esempio in cui i fraintendimenti generano pregiudizi (e viceversa) che possono essere fine a se stessi o dannosi. Nei miei scritti, ho citato già quanto accaduto a Konrad Lorenz, un etologo, famoso per aver scritto “L’anello di Re Salomone”, e non solo. Nella mia interpretazione dei fatti, ho immaginato le vesti e le caratteristiche di questo scienziato che viveva insieme agli animali e, quindi, lontano dai costumi borghesi della società cittadina. Lo scienziato è, comunemente, rappresentato come un signore di media età con i capelli arruffati e mal curati e, nella società dell’apparire, questo modo di presentarsi può essere ritenuto, di per sé, poco credibile. Nel mio racconto, Lorenz saltellava su di un terreno con le spighe alte che non faceva vedere altro agli spettatori capitati in zona per caso, se non lui che si muoveva come un folle mentre girando la testa all’indietro gridava “Qua! Qua! Qua!”. Nessuno poteva sapere che stava sperimentando la sua scoperta scientifica, secondo cui le paperelle, appena uscite dal guscio d’uovo, riconoscono come genitore, non quello della stessa specie ma quello che vedono per prima! Nascosti nel campo, quindi, c’erano gli anatroccoli!

I miei due racconti hanno entrambi come comune denominatore il tema dei fraintendimenti che nascono, spesso, fra esseri umani, soprattutto, quando non c’è abbastanza confidenza e conoscenza dell’altro, tale da chiarire, in poche battute, il proprio punto di vista. Anche a me è capitato di voler provare a spiegare a una persona a cui tengo il mio punto di vista e gli errori reciproci e, nonostante le mie competenze, le variabili intervenienti, il momento sbagliato e la scelta di parole improprie hanno provocato il nostro allontanamento, vuoi perché l’altro aveva già preso una decisione che generava imbarazzo e, quindi, difficile essere persuasivi dall’altro lato, vuoi per la mancanza di tempo e di effettiva volontà reciproca ad arrivare a un giusto compromesso. Così la situazione è solo peggiorata e i pregiudizi si sono solo acuiti e raddoppiati, per mio relativo dispiacere. Dico “relativo” perché non è il caso di andare oltre se l’altro ha i prosciutti sugli occhi e non tiene a noi con la medesima quota di simpatia e affetto. La sensazione è molto sgradevole, soprattutto, quando si arriva al conflitto fine a se stesso, alla rottura e non a uno scambio costruttivo.

L’elaborazione distorta delle informazioni dipende sia dal corredo cognitivo posseduto dai membri in causa (compresi i sistemi di credenze personali su si sé, sul mondo e sull’altro e i “devo” che impongono all’individuo come deve essere piuttosto che come vuole) sia dalle modalità di comunicazione. In entrambi i casi, vi sono delle variabili che influenzano e interferiscono con la nostra prestazione e con la buona comprensione dei fatti e del punto di vista dell’altro.

Una volta che si formula una interpretazione è difficile abbandonarla o modificarla perché ciò implica mettere in discussione il proprio ruolo, le proprie idee, le proprie motivazioni, a discapito persino di un rapporto che meritava di essere vissuto. Uno scambio comunicativo non è mai “neutro”, perché entrano in gioco una serie di variabili personali, quali: speranze, aspettative, bisogni profondi, esperienze pregresse, tratti di personalità. Anche il contesto incide sulla comunicazione. Scegliere una gelateria, un posto pubblico, per confrontarsi su di un argomento significa che non gli si conferisce lo stesso valore. Non si dà all’altro un giusto peso e la giusta considerazione, da cui discendono imbarazzo nell’esprimersi, blocchi emotivi, l’uso delle parole sbagliate e l’impossibilità di esporre la propria opinione senza confermare i pregiudizi e le decisioni già prese dall’altro.

Come ho già detto su, non sempre l’intimità del rapporto tra gli interlocutori (familiari, amici, partner) facilita l’espressione dei corretti contenuti.

Altri atteggiamenti comunicativi (verbali e non) che generano equivoci sono quelli che rientrano nel linguaggio del rifiuto. Fra gli errori di comunicazione più frequenti, oltre al tono della voce, alla mimica facciale, alla postura, al silenzio, al non detto, troviamo:

1. giudicare, accusare, colpevolizzare, sminuire, ridicolizzare

2. comandare, fare la predica, minacciare

3. contestare, mettere in dubbio

C’è anche da dire che i messaggi non verbali possono rafforzare quelli verbali oppure contraddirli, causando confusione e incoerenza. Tutto dà voce a quei pensieri che sono fuori dalla consapevolezza.

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