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“Romanzi da leggere online”: 18° capitolo del romanzo “La voglio gassata”

giovedì 5 Settembre 2019
Calvin Marcus

La 35^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il diciottesimo capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.

CAPITOLO 18°

Mi trovai un altro grande vuoto da gestire, con l’aiuto di Emy che aveva avuto con mia madre un rapporto costruito nel tempo, facendola sentire accudita e amata. Anche per Emy quello fu un momento critico.

Senza di lei, sulla quale aveva riversato tutto il suo amore, quasi fosse la sua famiglia lontana, Emy depose l’ansia, la paura. L’avevano sempre resa vigile in tutti i ruoli vissuti, con impegno ed affetto a rassicurare mia madre, a farle compagnia, raccontandole tanti aneddoti della sua terra, ad essere tempestiva nelle richieste d’aiuto.

Ora Emy aveva bisogno di me.

Lei così minuta, venne invasa da un male grande che mise a rischio la sua vita.

Mi dedicai totalmente a lei, aiutandola a superare un difficile intervento e fui felice di restituirla, ancora giovane, alla vita. Due sono sempre state le parole che erano per me dei comandamenti: Vivere e Aiutare. Due parole complementari che dovrebbero coesistere nell’animo di ogni uomo. Avrei avuto la conferma di questo mio modo di pensare più avanti nella mia vita.

Mi trovai ad avere bisogno di aiuto per vivere e dopo ho scelto di restituire a mia volta l’aiuto a chi era in difficoltà.

Ero molto provata, e una vacanza a Berlino, città giovane e dinamica, fu una buona idea per recuperare forza e serenità.

Mi piaceva molto andare in vacanza con la macchina, mi godevo il paesaggio, potevamo fermarci se qualcosa attirava la nostra attenzione, insomma eravamo io e Roberto a gestire la nostra vacanza.

Anagraficamente per me era un momento importante, come per ogni donna lo è la menopausa.

Ero alla soglia dei cinquant’anni e, nel corpo, tanti equilibri stavano cambiando.

Si iniziavano a vedere i segni del tempo e la resistenza alle fatiche si riduceva.

Ne ebbi la prova proprio quando, impegnandomi in certi percorsi, fino ad allora da me sempre affrontati agevolmente, mi accorsi di stancarmi.

Quella vacanza fu l’inizio di un periodo critico della mia vita.

Una notte mi sentii molto male. Roberto ed io non riuscimmo a giustificare quel malore.

Arrivò il mio compleanno e mio marito sapeva bene quanto odiavo essere al centro dell’attenzione.

Scelse così una modalità di trascorrere quella giornata, da me molto apprezzata.

Andammo a Venezia per sentirci circondati dalla bellezza antica dell’arte, per farmi provare l’ebbrezza di giocare con le slot machine, le cui luci e i colori svegliavano in me la sognatrice.

Il Casinò era chiuso e rientrammo alla nostra vita di tutti i giorni.

I sette piani da salire per andare a casa mia, non mi avevano mai impensierito; dovetti ammettere che adesso mi stancavano.

Decisi, come si fa in questi casi, di fare gli esami rutinari del sangue, temendo un rialzo di valori dovuto all’età critica che stavo vivendo.

Non potevo sapere che ciò che dovevo vivere sarebbe stato più difficile di quanto, fino ad allora, avevo vissuto.

Tutto iniziò da una telefonata: le cose dettemi per chi lo fece era un’abitudine, a me cambiò la vita.

Avevo il valore numerico dei globuli bianchi altissimo, al punto da farmi chiedere se mi reggevo in piedi.

Mi sentii indifesa, colpita e non sapevo da cosa, allagata di paura.

Mio marito si attivò, grazie ad un parente di Marzia, avemmo la diagnosi nel pomeriggio.

“Leucemia mieloide cronica,” così si chiama il nemico da combattere.

La mia vita ora dipendeva da altri e io non avevo scelta: era un tumore del sangue e ci fu detto che eravamo fortunati perché a Bologna c’era un centro di eccellenza in questo campo: il Seragnoli.

La mattina dopo andammo, e mi affidarono alle cure di un luminare per quella patologia.

Nel pomeriggio, ci conoscemmo.

Mi sorprese constatare che si trattava di un medico giovane.

Di solito si associa la bravura all’età, quindi un luminare doveva essere quantomeno una persona in là con gli anni.

Fui contenta di ricredermi quasi da subito.

Entrammo nel suo studio, ci accolse con cortesia e ci parlò con garbo e comprensione.

Con molta chiarezza e con tono sereno ci fu detto che la ricerca per i tumori del sangue aveva fatto tante conquiste.

Concluse dicendo che una volta per quella patologia si moriva, oggi si poteva curare.

Ecco, mi stava offrendo, senza saperlo, la forza di lottare. Pensai:” se lui mi aiuta, posso vivere”.

Non si è medici solo per curare, ma anche per prendersi cura di chi, spaventato, si chiede: «Ce la farò? Vivrò?»

Notai che anche la terminologia con cui si esprimeva: era semplice, aveva capito il nostro bisogno primario: essere informati ma, anche, rincuorati.

Il dottore annullò totalmente la distanza medico/paziente quando, salutandolo per accomiatarci, gli sentii dire rivolgendosi a Roberto: «Porti la signora a cena, se lo merita» e mi diede un buffetto su una guancia.

Ecco mio padre che interveniva nella mia vita,

A volte avrei voluto avere lui e mamma accanto, ma poi pensavo che per loro vedermi soffrire sarebbe stato un grande dolore.

I primi tempi mi furono fatte parecchie biopsie midollari.

Un esame molto doloroso, ma il mio angelo/dottore, durante la manovra, mi faceva ascoltare, in sottofondo, la mia musica preferita.

Tutte le settimane ero al Seragnoli, l’Istituto di Ematologia ed Oncologia medica del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, fondato dalla Famiglia Seragnoli, in ricordo dei due fratelli, Lorenzo e Ariosto Seragnoli, vittime di malattia oncologica.

Per portare la malattia in remissione, iniziai con 4 pastiglie.

Gli effetti collaterali si manifestarono subito e furono parecchi: gonfiore, rottura dei capillari negli occhi, male alle ossa e una spiacevole scoperta. Io che amavo tanto il colore ambrato dell’abbronzatura, sarei ritornata dalle vacanze pallidissima.

L’impatto, con tutto il corollario dei farmaci, degli effetti collaterali fu devastante, ma è proprio vero: quando si tocca il fondo, o rinunci alla vita o ti tocca risalire.

Io, in materia, avevo avuto un insegnante eccezionale: il mio papà. Qualcosa dentro di me fece appello a tutte le mie forze e mi dissi: «Non voglio sembrare ammalata, devo farcela e alla grande.»

Il mio angelo dottore mi venne incontro facendomi una proposta che mi avrebbe tanto aiutata.

Un giorno mi chese: «Cosa fa signora nella vita?»

«Nulla, risposi, sono libera da impegni professionali.»

«Vuole diventare volontaria A.I.L.?» mi chiese.

Accettai e mi recai all’A.I.L. per l‘iscrizione.

Non sapevo che, proprio in quel contesto, avrei trovato il modo di sentirmi realizzata, avrei potuto contraccambiare l’aiuto che mi veniva dato.

L’A.I.L., Amore, impegno, lavoro è una realtà concreta che offre aiuto a chi lo chiede ed è un’Associazione fondata sul volontariato. Circa 400 volontari si impegnano nei servizi, offerti, ogni giorno, a sostegno dei pazienti ematologici e dei loro familiari, inoltre partecipano attivamente alle campagne di raccolta fondi.

Intanto, assumevo regolarmente i farmaci e facevo gli esami.

Un giorno, Antonio, il mio medico con il quale eravamo meno estranei e ci davamo del tu, mi telefonò per dirmi che la biopsia dimostrava che reagivo bene al farmaco.

Ero in macchina, stavo ascoltando Vasco Rossi in una canzone che descriveva esattamente il mio stato d’animo.

La canzone era: “Un senso.”

La mia prima vittoria, avrei dovuto superare tante battaglie prima di vincere la guerra, e questo era il primo passo.

A dirmelo sempre Antonio, che mio padre aveva sicuramente messo al mio fianco per aiutarmi a vincere la malattia, ma soprattutto a non perdere me stessa.

Non si contavano più le persone che incontravo nella sala d’attesa, gente come me ferita nella salute e in cerca di aiuto per non lasciarsi andare e provare lottare per vivere.

Tutti riponevano le loro speranze in Antonio per le sue grandi capacità professionali.

Un giorno, un ragazzo in attesa della visita, mi disse:<Cara Roberta, perché ci accorgiamo del valore della salute solo quando la perdiamo? Perché non ci soffermiamo mai sulle funzioni del nostro corpo, sugli atti involontari che sono alla base della nostra vita come il respiro, il battito cardiaco.

Non attribuiamo il giusto valore lla straordinarietà di un respiro, di poter camminare, correre, abbracciarsi>.

Mi rese triste sapere, successivamente, che non ce l’aveva fatta.

Continuavo la mia attività nell’A.I.L. nata dalla generosità della signora Isabella Seragnoli.

Casa A.I.L. è una struttura residenziale, gratuita per i familiari dei malati che vengono sollevati dal pensiero di trovare un alloggio. Ma quel che più conta, consente loro di rimanere vicini al proprio congiunto che non si sente solo, e questo lo può aiutare a reagire.

I volontari, in campo già alle cinque di mattina, preparano le torte, il tè che poi distribuiscono con avvolgente accoglienza, senza compatimenti o nascoste verità.

Essa è gestita da Bologna A.I.L., la sezione bolognese dell’Associazione Italiana contro le leucemie, linfomi e mielomi.

I miei esami andavano bene se erano accompagnati dal sorriso di Antonio, un muscolo tirato sul suo viso faceva riaffiorare in me la paura.

Mio marito, Roberto, mi è stato di grande aiuto con la sua costante presenza al mio fianco.

Anche “Bum Bum” con la sua presenza affettuosa e silenziosa mi aiutò a combattere.

Quando lo guardavo, il mio pensiero evocava un altro cane, leon, anche lui adottato, e pensavo che il loro affetto era il loro modo per ringraziarci per averli adottati, per non averli lasciati mai soli, per l’amore condiviso. Sono dei compagni fedeli e silenziosi e il loro aiuto ad esempio, per i disabili, è vitale.

Consideravo quanto l’uomo, a volte, sia ingiusto abbandonandoli, non curandoli, usando il loro nome in senso dispregiativo.

Quanti detti: solo come un cane…. ho un male cane…una vita da cani, frasi ingiuste per un fedele amico dell’uomo!

Mi ricordo, a proposito di Bum Bum, una sera di un rigido inverno, appena portato a casa. L’ambiente nuovo lo spaventò, con uno strattone perse il collare e scappò.

Ero disperata, aiutati da tanti amici, lo cercammo per quattro giorni.

Arrivò, finalmente, una segnalazione e lo ritrovammo vicino all’Ospedale Maggiore.

Entrò nella nostra vita e diventò un membro della nostra famiglia; da allora non ne abbiamo più potuto fare a meno.

Gli animali hanno dei sensori straordinari, avvertono quando siamo più fragili e ci inondano di affettuosità.

Anche Bum Bum ha affrontato una malattia e sia io che Roberto non l’abbiamo mai lasciato solo.

Ricordo un particolare: un giorno eravamo andati fuori e non vedendomi accanto a lui perché ero rimasta indietro, si girò a guardarmi con una espressività e un’intensità tale da farmi capire che mi voleva accanto a lui.

L’Ospedale Sant’Orsola era diventato la mia seconda casa, tanto lo frequentavo e vivevo tutti i giorni.

Ho cercato, e credo di esserci riuscita, di non trascurarmi mai e non mortificare la mia femminilità.

Mi curavo nel fisico, come avevo sempre fatto, indossavo spesso qualcosa di nuovo, ero sempre in ordine e gradevole.

Vedendomi, nessuno poteva immaginare la fatica di vivere di quel periodo.

Ero come le anatre che tutti notano per la leggerezza con cui scivolano sull’acqua, senza immaginare la fatica che affrontano per stare a galla.

Nella sfortuna però ero aiutata da tutti, e nella mia vita continuavano ad accadere fatti che agli occhi degli altri potevano sembrare banali, ma per me avevano in significato ben preciso.

Eravamo ad una delle feste organizzate da Bologna A.I.L. per reperire fondi: La polentata.

Era la mia prima partecipazione, c’erano con me mio marito, mio fratello e mia cognata.

Roberto, cortesemente, mi versò del vino rosso nel bicchiere, per accompagnarlo alla polenta fumante già nei nostri piatti.

Accadde qualcosa per tutti casuale, tranne che per me.

Inavvertitamente urtai il bicchiere che si rovesciò.

Il vino rosso si dispose sul bianco candido della tovaglia, disegnando un grande cuore.

Tutti rimasero perplessi e dissero che quando si versa del vino è indice di buon augurio.

Per me, invece, quel cuore aveva un messaggio inequivocabile: era mio padre che mi diceva:” sono con te”.

Il tempo scorreva e le mie cure continuavano, avevo più sollievo, niente più biopsie ma solo prelievi di sangue.

Talvolta facevo emergere la mia fragilità che cercavo sempre di contenere.

Mi dicevo:” il prossimo non può trattarmi male perché io sono malata e la vita mi è in debito”.

Ma non è così scontato, la gente non si sofferma ad osservare ciò che viviamo e i risultati della ricerca non sono noti a tutti.

La sofferenza ha anche un pregio: ci conduce nel profondo di noi stessi, ci fa prendere coscienza del valore di sentimenti, di rapporti e di piccole cose che prima davamo per scontate. Si danno delle priorità, si sopportano le attese, si sviluppa la pazienza, ci si rifugia negli angoli di noi stessi.

Quando avevo qualche dubbio, giocavo d’anticipo e mi dicevo: «Se telefonasse Antonio e mi dicesse che c’è qualche problema, che senso avrebbe tutto il resto?»

Mi aiutavo in ogni modo. Sapevo chi era il nemico da combattere e collaboravo con i medici, ascoltandoli attentamente. Ho scoperto anche la vera amicizia, quella che non si invola alle prime difficoltà ma ti rimane accanto e lotta con te.

Ci vuole più coraggio a dire sono felice per te, che poverino mi dispiace, chissà come ti senti! La commiserazione non era un sentimento compreso nella mia filosofia di vita.

Vivere è una conquista e come tutte le cose realmente importanti, comporta fatica, sofferenza, dubbi e paure.

Questo fa parte del gioco della vita e non possiamo impedirlo, ma l’avvilimento, sentirsi spacciato, ignorare la vita che ti scorre intorno ed aggrapparti ad essa, questo sì, dobbiamo farlo perché anche un semplice sorriso può trasformarsi in un attimo in più da vivere.

Nella vita non contare quanti respiri fai, ma quanti attimi ti hanno tolto il respiro, per la gioia di averli vissuti.

Il paziente è nudo di fronte alla sua malattia, consapevole dell’alto rischio che corre e tende ad isolarsi.

Proprio per evitare questo, si formò un Gruppo A.I.L. Pazienti L.M.C. per unire tante solitudini ed essere sempre informati.

Andammo due giorni a Roma, incontrammo il Prof. Mandelli, precursore, in tutti i sensi, nella lotta alle leucemie.

Ci fu detto che, nel campo di nostro interesse, la ricerca aveva raggiunto dei traguardi che, in molti casi, permettevano una vita normale.

Roma, Caput mundi, arte e bellezza ovunque e la possibilità di poter vivere fino all’ultimo dei miei giorni.

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